mercoledì 18 dicembre 2013

Il Narcisismo: tra normalità e patologia


Nell'affrontare il tema del narcisismo ci sono inevitabilmente delle questioni da porsi la cui soluzione costituisce la cornice all'interno della quale muoversi per evitare di cadere nelle trappole che un tema di questo genere tende a chiunque vi si addentri. Come vedete la trappola è già tesa e la diffidenza diventa inevitabile come in tutti i casi in cui ci si ritrova a fare i conti con le istanze idealizzate di sé. Saggiamente terrò bene in mente un insegnamento che forse non ho ancora fatto del tutto mio secondo il quale nella vita si fa quello che si può e non ciò che si dovrebbe.
Riepilogo brevemente i tratti salienti di questa cornice di questi presupposti su cui costruire un discorso sul tema:

  1. Come evitare di fare un intervento narcisistico sul narcisismo
  2. Mostrare gli aspetti del narcisismo che riguardano tutti e che ciascuno può sentire come propri
  3. Mostrare l'importanza del narcisismo nella vita quotidiana

Il narcisismo è caratterizzato dalla eliminazione dell'altro o perlomeno da un tentativo del genere.
Spero quindi in questo lavoro di riuscire a considerare gli altri e cioè di non far fuori voi che leggete e di preoccuparmi di quello che riuscirò a farvi capire tanto quanto di quello che io vorrei dire. Si sa fra l'altro che il successo in campo relazionale è proprio legato a quanto si riesca a tenere in considerazione l'altro e a farlo sentire partecipe dei propri pensieri senza frustrare eccessivamente il suo narcisismo. In poche parole quanto più arriverete alla fine di questo scritto con l'idea di averci capito qualcosa, tanto più avrete la sensazione di esserne soddisfatti. L'importante è non aderire eccessivamente alla logica del successo e cercare in nome di esso di essere all'altezza delle aspettative, perché altrimenti sarei costretto a dirvi solo cose che già sapete frustrando così le mie velleità narcisistiche di farvi pensare qualcosa di nuovo. Va tenuto presente che il concetto psicologico di narcisismo fa riferimento a costrutti teorici e situazioni umane assai complesse, che non possono essere indebitamente semplificate: qualche difficoltà è perciò inevitabile. Ognuno di noi quando ascolta qualcosa di nuovo farebbe sempre bene a chiedersi dove stia la difficoltà di comprensione di un concetto o di un discorso: le difficoltà obiettive esistono, è ovvio, ma non c'è sempre una componente nostra individuale, un'attiva resistenza alla comprensione? E non è questa resistenza un primo fenomeno narcisistico? Introdurre qualcosa, un'idea, un'immagine, un concetto proveniente dal di fuori costituisce un'alterazione del nostro interno. A questa alterazione ci opponiamo sempre e in alcuni periodi della vita quando abbiamo più bisogno di sentirci noi stessi proprio perché stiamo cambiando (e non solo nell'adolescenza), questo atteggiamento può essere tanto condizionante quanto anche salvifico. I difetti e le complicazioni inutili di questo lavoro sono da attribuire solo a me, ma un certo tipo di difficoltà spetta anche a ciascuno di voi: se questa difficoltà verrà riconosciuta, ognuno di voi potrà comprendere bene una prima accezione del termine narcisismo.
Nel linguaggio quotidiano la parola narcisismo ha assunto una serie di significati che solo parzialmente hanno a che fare con l'accezione psicologica: si usa spesso per indicare una persona vanitosa, piena di sé, che non si interessa degli altri (egoista) e si connota spesso in senso negativo, una specie di giudizio di condanna. Sarebbe bene per questa occasione lasciare da parte questa concezione limitata e riflettere sul fatto che il narcisismo è un modo essenziale di essere dell'animo umano. Certo, può avere delle declinazioni eccessive, può essere alla base di patologie gravi (il narcisismo maligno alla base delle condotte psicopatiche), ma, prima di tutto, è una modalità di pensiero normale, sana, essenziale per la vita stessa entro certi limiti. La cosa interessante è che, come sempre accade in medicina in generale ed in psichiatria in particolare, l'accezione comune di un termine fa riferimento alla patologia (per cui un tumore è sempre un cancro, e un momento di perdita di contatto con la realtà è una schizofrenia) e quindi con il termine narcisismo ci si riferisce comunemente a persone che vengono classificate dal DSM V come affette da un disturbo narcisistico di personalità, caratterizzate da un pattern pervasivo di grandiosità (sia nella fantasia che nei comportamenti), bisogno di ammirazione, scarsa empatia e che esordisce in età adulta precoce e si presenta in una varietà di modalità come indicato dai seguenti criteri (5 di essi sono necessari per una diagnosi):

  1. Un senso grandioso della propria importanza
  2. Fantasie di successo illimitato, potere, bellezza ed amore
  3. Idea di essere una persona speciale e di poter essere capito e di poter frequentare solo persone altrettanto speciali o di elevato stato sociale (o istituzioni)
  4. Richiesta continua di eccessiva ammirazione
  5. Sensazione di essere un privilegiato e pretesa di essere trattato in modo speciale
  6. Tendenza ad approfittare delle relazioni interpersonali con una tendenza alla manipolazione
  7. Mancanza di empatia: difficoltà ad identificarsi con pensieri e bisogni altrui
  8. Invidia
  9. Arroganza e modalità sprezzante sia nel comportamento che nei giudizi

La prevalenza del disturbo riferita ai criteri definiti nel DSM IV (la classificazione precedente) varia tra lo 0 e il 6%. In altre parole è possibile secondo alcuni studi che il disturbo così come è descritto non esista. Lascio a ciascuno di voi la riflessione sul significato di questi dati.
Tratti narcisistici sono particolarmente comuni negli adolescenti e la loro presenza in questa fascia di età non è indicativa di un futuro sviluppo in senso patologico della struttura di personalità. Gli individui adulti con un disturbo narcisistico di personalità possono avere particolari difficoltà nel percepire quando le loro performance fisiche e lavorative non sono più supportate da una condizione favorevole come conseguenza delle limitazioni legate all'età.

Il mito di Narciso

La storia raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi si può dire che l'abbia creata lui. Ci sono pervenute pochissime storie o allusioni a Narciso o a personaggi che abbiano avuto una storia come la sua in precedenza. E' anche vero che ci sono state anche moltissime versioni successive. Cosa ha raccontato dunque Ovidio? Potete non aver mai letto le Metamorfosi e conoscere ugualmente la storia di Narciso. Questa è proprio la caratteristica del mito, cioè quella di essere tramandata attraverso il racconto. Qualcuno come me in questo articolo potrebbe avervi raccontato la storia. Una versione che circola attualmente sarebbe quella secondo cui Narciso era un tizio che innamoratosi della propria immagine riflessa nell'acqua sarebbe annegato nel tentativo di acchiapparsi. C'è indubbiamente del vero in questa versione ma non ha nulla a che fare con la ricchezza della storia raccontata da Ovidio (III libro, dal verso 316 al verso 510 delle Metamorfosi).
Ovidio fa nascere tutta la storia da un sbornia di Giove, che nello stato di ebrezza provoca Giunone sul fatto di essere certo che i mariti godano più delle mogli durante l'attività sessuale. Giunone, che aveva il suo bel da fare ad inseguire Giove per l'Olimpo sempre a caccia di ninfette, non è affatto d'accordo e i due decidono di domandare un parere a Tiresia, un tizio che aveva avuto una disavventura notevole: mentre era in un bosco aveva bastonato due serpi accoppiate ed era stato trasformato di colpo in una donna. Dopo sette anni aveva di nuovo incontrato le serpi e colpendole nuovamente ritornò ad essere uomo. Tiresia prende la questione sul serio e da ragione a Giove. Giunone adirata acceca Tiresia reo di non aver visto giusto. Giove che non può annullare il decreto di un altro dio, si salva la coscienza dando a Tiresia una vista metaforica: sarai si cieco, ma veggente. Non vedrà davanti a sé nello spazio ma nel tempo si.
Tiresia viene interpellato qualche tempo dopo dalla madre di Narciso (figlio anche di Cefiso), la ninfa Liriope, per sapere se il suo bambino neonato sarebbe vissuto fino a diventar vecchio. Tiresia incattivito dalla sua cecità e dall'impossibilità quindi di vedere se stesso, da alla ninfa un responso che è la profezia-maledizione di un invidioso: alla domanda se questo bellissimo bambino vivrà a lungo risponde “si se non noverit” (se non conoscerà, non guarderà se stesso). Negli anni Narciso diventa un bellissimo ragazzo che non si fa toccare da nessuno (ragazzo o ragazza che siano) e mentre va a caccia viene scorto dalla splendida ninfa Eco che si innamora perdutamente di lui. Eco era stata punita da Giunone per la sua lingua lunga e condannata a non poter far altro che ripetere la fine delle parole udite e parlare quindi solo attraverso le parole degli altri (pur essendo muta non può tacere se qualcuno parla). Quindi Eco quando si innamora di Narciso non può far altro che parlare attraverso le parole di quest'ultimo. Quindi Ovidio costruisce una situazione intrigante in cui ricapitolando Tiresia è cieco ma veggente, Eco è muta ma in qualche modo parlante e Narciso vede ma non deve vedersi ma metaforicamente non vede altri se non se stesso. Il gioco tragico è tutto sul chi parla a chi e chi vede chi. Ma torniamo alla povera Eco e a Narciso il superbo. Eco quindi insegue narciso di nascosto mentre va a caccia di cervi ma non può parlarci quindi non le resta che fare qualche rumore per attirare la sua attenzione. Si innesca quindi un dialogo basato sugli equivoci in cui alla fine Narciso esorta Eco a trovarsi in un luogo “huc coeamus” a cui Eco risponde inevitabilmente “coeamus” che oltre che trovarsi vuol dire unirsi carnalmente e quando felice di essere riuscita ad esprimere le sue intenzioni tenta di buttare le braccia al collo di Narciso questi la respinge sdegnato e grida “crepo piuttosto che stare con te”. Eco non può che rispondere “stare con te” provando una grande vergogna che la farà consumare fino a morire: da allora di lei ci è rimasta solo la voce (la condanna di Giunone persiste anche dopo la morte: un decreto divino non può essere cancellato). Narciso nel frattempo continua a far strage di cuori tanto che uno dei delusi gli augura di amare senza essere amato e gli dei (Nemesi) accolgono la preghiera e quando quel fatidico giorno, stanco si stende a riposare al fresco vicino ad una sorgente e vede con la coda dell'occhio riflessa nell'acqua la sua stessa immagine bellissima, credendo che si trattasse di un altro, si innamora perdutamente di quell'immagine che inutilmente tenta di abbracciare e quando si accorge che le sue lacrime intorbidano l'acqua e si accorge che “iste ego sum” (accidenti ma questo sono io) non sapendo soffocare l'amore si straccia la tunica, si lacera il petto ed insanguina la sorgente. La povera Eco (o quello che ne era rimasto, e cioè la voce) prova un grande dolore e ripete le parole straziate di Narciso che risuoneranno in tutto il bosco fino al ciao con cui Narciso saluta la propria immagine ed Eco saluta il suo amato. Narciso nel momento in cui capisce di essere lui stesso riflesso dalla superficie dell'acqua, avvertirà il dramma di tutti coloro per cui l'altro non esiste. Ricordiamo a proposito di rispecchiamento che gli specchi antichi non erano così limpidi e spesso si riteneva che lo specchio portasse male e che rispecchiarsi, anche nel sogno, annunciasse la morte propria o di qualche parente e mantiene questa qualità in molte credenze popolari.
Ma quando le Driadi si accingono a preparare il rogo per bruciare il cadavere del povero Narciso, non lo trovano più: al suo posto (ed è qui la metamorfosi) è cresciuto e sbocciato un fiore rosso-arancione circondato da una corolla bianca che da allora si chiamò appunto narcisus poeticus, il fiore che anticipa la primavera e che muore presto e che guarda verso il basso come il protagonista del mito guardava se stesso riflesso nella sorgente dall'alto verso il basso .
Possiamo adesso ritornare al nostro narcisismo e alle teorie che sottendono il suo significato in psicologia e in psichiatria ma sono necessarie delle premesse per non cadere nel tranello delle classificazioni, che come abbiamo visto in precedenza, con l'obiettivo di creare dei criteri condivisi, possono portare alla descrizione di situazioni cliniche lontane dalla realtà dei singoli individui:

  1. le costruzioni teoriche sono delle astrazioni e, se è vero che non si può ridurre una persona ad una teoria, è altrettanto vero che fenomeni per lo più inconsci come quelli che sottendono al narcisismo, sono descrivibili solo attraverso astrazioni teoriche
  2. non si può valutare una persona da un dettaglio attribuendole una categoria diagnostica e quindi bisogna distinguere le strutture di personalità dai tratti di personalità di cui le strutture sono la risultanza
  3. è importantissimo tener presente che un comportamento non è praticamente mai un indice diretto di un particolare orientamento psichico. Scambiare una parte per il tutto è spesso la base di quei processi generalizzanti che caratterizzano le costruzioni paranoidi che portano ad interpretare la realtà senza tenerne conto (in modo narcisistico quindi).
Queste precisazioni sono necessarie per evitare che alcuni concetti psicologici possano essere utilizzati in senso moralistico e quindi per dare sommari giudizi. L'obiettivo dell'analisi dei meccanismi che determinano pensieri e comportamenti è la comprensione o, all'interno di una terapia, la consapevolezza non il giudizio. Lo psichiatra per sua natura non può essere quindi mai un giudice.
Freud (1914) fin dai suoi primi studi sul narcisismo (Introduzione al Narcisismo) ne distingue due tipi: da un lato una situazione inaugurale di narcisismo assoluto, primario, quello del neonato (his majesty the baby) che vive il mondo esterno come un'estensione di sé e, dall'interno di una bolla diadica in cui si realizza la simbiosi perfetta con la madre complice assoluta, braccio armato del suo pensiero (magico onnipotente) governa il mondo. Tale condizione non essendo esperibile direttamente può essere solo presupposta in un costrutto teorico. Dall'altro lato Freud ha distinto una situazione psichica più tardiva denominata narcisismo secondario, collegabile a fenomeni clinicamente osservabili e più o meno parzialmente esperibili soggettivamente. E' quest'ultima quella a cui noi comunemente ci riferiamo quando parliamo di narcisismo ed è appunto quella necessità degli individui di escludere più o meno temporaneamente il mondo esterno per ritrovare un equilibrio interno. Numerose persone nella pratica clinica quotidiana (e non solo) sembrano non riconoscere davvero l'esistenza degli altri. Ovviamente queste persone hanno a che fare con gli altri ma se li si sta ad ascoltare, ci si accorge che l'altro, anche il più prossimo, non viene riconosciuto come portatore autonomo di affetti, idee, desideri. Semplicemente l'altro è considerato un mezzo per il raggiungimento dei propri fini (attraverso modalità manipolatorie) o qualcuno che confermi le proprie opinioni (come accade con quelle persone che vogliono avere ragione ad ogni costo). Spesso il riconoscimento dell'altro e della sua esistenza in queste persone e perturbante per il proprio equilibrio e la consapevolezza dell'esistenza altrui determina solo irritabilità (frequente quando si viene svegliati al mattino improvvisamente), rabbia (quando la costruzione idealizzata dell'altro non viene confermata ad esempio quando l'altro non ci da ragione) e violenta aggressività (quando l'altro è indistinto da sé e la sua perdita coincide con la perdita di se stesso, alla base di molti omicidi-suicidi che sembrano andare per la maggiore). In tale ottica le due teorie benché concordino sull'impossibilità dell'esistenza di un narcisismo assoluto, distinguono la possibilità di un certo grado di autonomia assoluta quasi fisiologica nel caso del narcisismo primario (in cui la relazione con l'esterno è pressoché assente), mentre nel caso del narcisismo secondario (inteso come difesa della propria individualità dall'invasione del mondo esterno) si presuppone un certo grado di dipendenza altrettanto assoluta. In entrambi i casi le dinamiche sarebbero inconsce, cioè il soggetto non se ne accorge per nulla (“Pippo Pippo non lo sa ….” recitava Rita Pavone negli anni '70). Proprio per ciò è a questo punto evidente quanto nel linguaggio comune la parola narcisismo abbia significati lontanissimi dal suo significato psicologico: di solito per narcisismo si intende e si condanna un atteggiamento cosciente strafottente oppure si usa come sinonimo di vanità o egoismo. Per contro in psicologia il narcisismo non riguarda atteggiamenti coscienti e soprattutto riguarda un equilibrio che, comunque lo si veda, è di fondamentale importanza per la vita umana.
Ricapitolando: per la vita di ciascuno di noi è fondamentale sviluppare un certo grado di autonomia, di autosufficienza, di stima di sé, di sicurezza, di piacere nello stare con se stessi, di sentimento di essere un tutt'uno integrato. Il narcisismo serve a questo. Ma mentre realizza queste condizioni mette fra parentesi gli altri. Per lo più questa esclusione è un modo inconscio di pensare, del quale si possono percepire solo alcune conseguenze e solo in casi estremi può essere manifesta agli altri e cosciente al soggetto che la esprime. Dall'altra parte viviamo tutti in un mondo che in qualche modo ci reclama invadendoci continuamente con i suoi stimoli e le sue richieste, perturbando costantemente il nostro equilibrio fatto di consapevolezza e percezione di sé. Nel complesso potremmo dire che ciascuno di noi nel corso della giornata oscilla tra sé e gli altri con una prevalenza del narcisismo durante il sonno ed una rinuncia ad esso prevalente nello stato di veglia: si tratta di una condizione fisiologica che apparirà a tutti come necessaria. Nella cosiddetta patologia narcisistica ci troviamo di fronte ad un investimento su se stessi anche nello stato di veglia e questo determina gravi conseguenze sul piano relazionale.

Il narcisismo nella vita quotidiana

Accade spesso di sentire delle riflessioni sulle fatidiche “feste della classe”, una sorta di tuffo nel passato in cui vecchi compagni di scuola si rincontrano, e di come il vissuto rispetto a queste rimpatriate sia mutevole. Coloro che si adattano meno sembrano quelli che in virtù del tempo passato e della percezione di esso hanno una certa difficoltà a mettersi in relazione con persone che negli anni sono diventate degli estranei. Al contrario i protagonisti di queste riunioni sono coloro che hanno l'impressione che il tempo non sia passato e che percepiscono gli altri sulla base dei propri ricordi e si divertono molto, in maniera anche un po' sadica, a rivangare storielle scabrose e nomignoli squalificanti. In genere i primi ritornano da queste situazioni con un senso di estraneità o di noia (l'effetto più caratteristico in risposta all'assenza di una relazione oggettuale significativa) mentre i secondi ne derivano un grande divertimento e non vedono l'ora che arrivi il prossimo anno per ripetere l'esperienza. In realtà quelli simpatici hanno la capacità di non mettersi in relazione con la persona reale che hanno di fronte ma con l'immagine che hanno dentro di sé e non importa quanto l'altro ci tenga a chiarire quanto le cose siano cambiate perché in ogni caso “il simpatico” si terrà ben stretta la sua immagine, quello sei e quello rimarrai: una specie di oggetto che mi serve per certi miei pensieri, non una persona con una sua storia ed un suo divenire. L'altro esiste non tanto di per sé nella logica narcisistica ma solo come specchio (come ha narrato Ovidio) di una propria attività psichica, la conferma di un proprio pensiero. Lo stesso può accadere nel rincontrare una vecchia fiamma: chi abbiamo incontrato? Una persona che abbiamo amato con la sua storia, l'amata di un tempo (la sua immagine che ci siamo fatti) o l'amore che abbiamo provato un tempo (cioè la sola sensazione che abbiamo provato nei suoi confronti allora)?

Il mondo della politica

Prendiamo spunto da tangentopoli (ma il discorso potrebbe valere per altre situazioni ben più attuali): è importante ricordare che in quegli anni ci furono alcuni suicidi di persone inquisite dalla magistratura, in carcere o fuori. Nella polemica di allora (ma le cose non sono cambiate) la morte di queste persone fu attribuita, asseconda dell'orientamento del commentatore, alla persecutorietà della giustizia o al senso di colpa del suicida (quasi come se il suicidio costituisse una ovvia ammissione di colpa). Se guardiamo le cose in maniera meno condizionata (ed oggi è sicuramente più facile di allora) alcuni di questi suicidi hanno delle caratteristiche particolari, quasi che all'improvviso delle persone che appartenevano alla nomenclatura (termine che preferisco a casta), ad un gruppo che si considera intoccabile, avessero percepito che l'immagine che si erano costruite di se stessi e che li aveva sostenuti fino ad allora non solo era falsa ma addirittura franata. L'esito di una tale sensazione è che se non ci sono più io (idealizzato), non esisto e tanto vale che muoia. Ci possiamo chiedere di fronte a questo tragico esempio quale equilibrio narcisistico reggesse tali persone, quale tipo di illusione governasse i loro atti e persino come mai persone con questo equilibrio strutturale avessero raggiunto posizioni così ragguardevoli.
La domanda è: che effetti produce sulle altre persone un individuo con una struttura dall'equilibrio narcisistico? Sebbene sembri strano, (se uno non si accorge di me perché dovrei a mia volta considerarlo?) un equilibrio narcisistico è alla base del cosiddetto successo sociale. La sicurezza, l'orgoglio, l'ambizione, la certezza di superiorità costituisco un invito all'identificazione per moltissime persone, che con il loro appoggio determinano il successo del narcisista (di qui la partecipazione copiosa alle feste di classe organizzate dai soliti noti). Si crea quindi un circolo di auto-potenziamento del fenomeno, perché il successo aumenta la sicurezza, l'orgoglio, l'ambizione, il sentimento di superiorità e di invulnerabilità del narcisista e ciò aumenta ulteriormente il suo fascino, che produce ulteriori proseliti e ulteriori probabilità di successo …. Andrebbe tutto bene se non fosse per un dettaglio e cioè che questo circolo vizioso induce a lasciar perdere la realtà fino ad un vero e proprio distacco. Mi fermerei un attimo su questa riflessione (con un minuto di silenzio) perché senza volerlo sembra descrivere alcuni fenomeni che viviamo con una particolare frequenza ai nostri giorni. Riepiloghiamo quindi un attimo: da un lato c'è una persona che per comodità chiamiamo “il narcisista” ma che ha un effetto fascinatorio e carismatico, dall'altra una certa quantità di persone che si identificano in lui e che lo spingono a continuare sulla sua strada che rende a questo punto il povero narcisista sempre più convinto, contro ogni realtà, legato inscindibilmente all'immagine che gli viene riflessa dai suoi fan, sale sul piedistallo che gli viene costruito dove si troverà inesorabilmente solo e da cui prima o poi, più o meno rovinosamente, cadrà. La caduta di un individuo che ha puntato tutto su di sé sarà inevitabilmente terribile (dipende inoltre dall'altezza del piedistallo): con parole un po' più narcisisticamente tecniche potremmo dire che siamo di fronte all'esperienza del crollo dell'oggetto narcisistico (come la scomparsa del seno per un neonato o della madre per un bambino al primo anno di asilo) che non è altro che l'immagine di se stesso (il mito e la morte di Narciso a questo punto diventa francamente rappresentativo) e la conseguenza è un tentativo estremo di essere ancora protagonisti della propria vita togliendosela. Potrei azzardare l'ipotesi che i suicidi di alcuni imprenditori travolti dalla crisi economica attuale abbia la stessa natura ma so che questo susciterebbe in molti reazioni di sdegnata protesta. Per cui è più confortevole considerare queste persone come dei martiri del capitalismo in nome del potere della retorica.

Il mondo dello spettacolo

A questo punto del dramma vorrei tranquillizzarvi sul fatto che in realtà questo tipo di suicidi non avviene così frequentemente: spesso questo tipo di narcisisti mantiene nel tempo un effettivo successo sociale e vivranno felici e contenti anche dopo le cadute come dimostrano molti nostri politici e persone del mondo dello spettacolo. Bisogna distinguere tra successo sociale e realizzazione personale e non è affatto detto che il primo garantisca il secondo anzi a volte proprio l'assenza di questa realizzazione personale mantiene ad oltranza la fame di successo. Quando una persona per 18 ore al giorno si occupa di riunioni, attività promozionali, esposizioni al pubblico, elaborazioni di strategie ulteriori per avere più successo, le restanti 6 ore dedicate al sonno e all'alimentazione non sembrano più sufficienti ad avere una vera e propria vita privata con quei momenti di felicità derivanti anche dalla partecipazione della gioia altrui e non sembrano sufficienti a prendere coscienza di una realtà esterna che ci circonda all'interno della quale la nostra si svolge.
Come il mito di Narciso ci insegna potremmo dire che fondamentalmente il narcisismo è infelice. La ricerca a cui spinge non è mai del tutto soddisfacente perché continuamente testimone dell'assenza dell'altro. Molte delle continue traversie amorose dei personaggi mediatici di successo sono anche dovute a questo fenomeno: la ricerca dello specchio anche nella vita privata porta prima o poi (in genere prima) a rendersi conto che quella persona scelta come partner narcisistico è differente, troppo differente (da sé) e nel momento in cui diventa una persona e non un'immagine riflessa da uno specchio la relazione narcisistica si spezza e quindi finisce. Potremmo chiederci se sia il potere ad accecare o la cecità del narcisismo che facilita l'ascesa al potere? Penso che ci sia materia per un'altra relazione ….
A questo punto con questi pochi concetti possiamo guardare un po' più vicino a noi ma per farlo abbiamo sempre bisogno di una certa distanza: quando guardiamo lontano possiamo veder con una certa chiarezza certi fenomeni ma quando abbiamo il naso contro il muro ci riesce difficile vedere tutta la casa. Possiamo passare quindi dagli esempi tratti dai politici e dai personaggi pubblici ad altri più vicini a noi e che riguardano la famiglia.

Il Narcisismo nella famiglia

Abbiamo già dato una definizione di narcisismo: è una situazione che elimina l'altro ed è caratterizzata dall'investimento affettivo su se stessi. Ciò non toglie che comunque gli altri esistano. Dire quindi che una relazione è narcisistica può sembrare una contraddizione di termini se non si precisasse che si tratta di una ellissi: bisogna dunque dire che esistono relazioni con e tra persone narcisiste e che queste relazioni hanno un po' la caratteristica di determinare un senso di solitudine. Bisogna anche pensare che il narcisismo essendo anche un fenomeno fisiologico in parte un certo senso di solitudine seppur transitorio, si può avvertire sempre (in modo sano). E' un'esperienza frequente (soprattutto con l'avanzare dell'età) quella di trovarsi ad una cena con amici ed avere l'impressione che ognuno parli per sé e che non ci sia un vero e proprio filo conduttore del discorso (con la conseguenza di sentirsi soli).
Se consideriamo la famiglia, vedremo che anche in essa le componenti narcisistiche non mancano mai. L'importante è che non siano dominanti. Ma sarebbe tragico se mancassero del tutto.
Molte delle esperienze narcisistiche avvengono nella primissima infanzia, e il contesto familiare è il palco in cui il dramma della scoperta del mondo e della dipendenza da esso si consuma, quando il neonato, nudo, incapace di agire e di parlare, persino di pensare, vive in balia totale dell'ambiente. In questa ottica si capisce come le relazioni siano essenziali per la vita. Il problema di ciascuno alla nascita è quindi quello di diventare un individuo, un essere staccato e diverso dagli altri ma in qualche modo in relazione con loro, dotato di un certo grado di autonomia (sia psichica che materiale) senza la necessità di un eccessivo distacco. La condizione del neonato potrebbe essere descritta come quella di un individuo che è tale e sa (inconsciamente) di esserlo e che esperisce di non essere in grado di esserlo. Il neonato ha comunque la possibilità grandiosa, a fronte della sua disastrosa situazione iniziale (vista con gli occhi di un adulto), di concepirsi in forma allargata. Chi sono? Sono l'insieme delle mie condizioni piacevoli, delle forze che mi danno piacere: questa è la forma a cui si allude quando si parla di narcisismo primario. Il limite di questa formulazione è che è una forma per esprimere una situazione nei termini dell'adulto. Probabilmente il neonato non si pone la domanda “chi sono?” ma esperisce direttamente di sentirsi allargato dal piacere e di sentire come estraneo tutto ciò che provoca dispiacere. Inutile dire che questa condizione di narcisismo primario non ha niente a che fare con la realtà tanto che l'accettazione di un concetto di questo tipo provoca inevitabilmente forti resistenze in chi ascolta. Ma è utile sottolinearne l'utilità perché se il neonato avesse una precocissima consapevolezza della sua realtà si sentirebbe disperato ed in balia degli altri, mentre il suo senso di onnipotenza e la possibilità di poter guardare al mondo con fiducia e soddisfare i propri bisogni con l'arroganza dell'urlo e del pianto gli permette di accumulare sufficiente fiducia in se stesso nel tempo da poter affrontare il mondo. E l'altro all'inizio della vita è si qualcuno da cui ci si può attendere cibo, calore, amore, ma anche qualcuno di enorme, sproporzionato. Il neonato quindi è un nano che deve avere molta fiducia in sé per poter affrontare il mondo dei giganti (per chi ha letto i Viaggi di Gulliver il concetto non dovrebbe essere di difficile comprensione). La differenza tra questa condizione e il narcisismo secondario di Narciso, del politico di successo o il tizio che incontra una vecchia conoscenza per strada, è che l'oggetto, cioè il qualcuno su cui proiettare un immagine propria (spesso idealizzata), non esiste. Il neonato non si rispecchia all'inizio in nessuno, non guarda se stesso riflesso altrove: semplicemente si piace perché prova piacere. Il passaggio dal narcisismo primario a quello secondario è determinato dal fallimento del primo e non è indolore e passa attraverso il riconoscimento che qualcosa (che poi diverrà qualcuno) dall'esterno deve intervenire per eliminare la fonte di tensione, di dispiacere. L'assenza della madre per il neonato in una tale ottica, è l'assenza di sé e quando un bambino si trova in una condizione di trascuratezza (oggettiva), di abbandono non può che subire il trauma della sensazione di morte che questo comporta. In situazioni più abituali nel processo di riconoscimento dell'altro c'è il problema di sperimentare la sofferenza della frustrazione dell'attesa: la madre non è sempre li a dare cibo etc... A posteriori possiamo dire: per fortuna la madre non è perfetta: se lo fosse, non incentiverebbe il piccolo ad uscire dalla sua condizione di narcisismo primario che come sappiamo è del tutto irrealistico. E tuttavia questa esperienza si fallimentare, è stata talmente soddisfacente che ad essa dobbiamo costantemente tentare di ritornare e lo facciamo quotidianamente come abbiamo visto con il sonno un evento assolutamente necessario. La realtà esterna viene avvertita dall'individuo come disgregante mentre l'individuo ha la necessità di integrarsi. Se il sonno quindi serve a reintegrarsi è perché la realtà esterna obbliga ad investire su di essa per comprenderla o per elaborare gli stimoli che essa continuamente ci invia, rendendoci costantemente diversi da come eravamo prima sottraendo energia alla nostra necessità di integrazione. L'assenza di sonno in alcune situazioni patologiche come gli stati maniacali determina in poco tempo la disgregazione degli individui gettandoli durante la veglia in uno stato di dissociazione dalla realtà, difesa narcisistica estrema nei confronti di un'invasione dall'esterno diventata in altri modi ingestibile.
A questo punto ci si potrebbe chiedere qual è il ruolo della mamma nel far uscire il neonato dal narcisismo primario, una domanda che ovviamente non ha senso pratico quindi non c'è da prendere appunti ma solo da lasciarsi andare ad un flusso possibile di pensieri. La mamma fortunatamente è colpita da una serie di sensazioni nuove che comunemente definiamo istinto materno e sulla base di questo sente che il bambino è un tutt'uno con lei determinando frequentemente qualche reazione di gelosia nei mariti trascurati (regrediti per l'occasione allo stato di neonati). Freud ipotizzava che la madre permetterà al bambino di uscire dal narcisismo primario nella misura in cui rende tollerabile al bambino la frustrazione di avere a che fare con la realtà. Tutto ciò sembrerebbe possibile attraverso una funzione di contenimento (holding) che la mamma sarebbe in grado di sostenere nei confronti dell'ambiente esterno. In tale ambiente il bambino nel tempo riuscirà a percepire la madre come separata da sé e ad intraprendere quel processo di individuazione che lo porterà a costruirsi nel tempo una propria struttura di personalità.
Nella vita quotidiana di una famiglia, il narcisismo ha un gran peso. Ognuno dei membri ha a che fare non solo con gli altri familiari ma anche con le proprie identificazioni con loro. Per cui si arriva a quelle situazioni solo apparentemente paradossali in cui ad esempio padre e figlio non si sopportano perché hanno lo stesso carattere. Somigliare a qualcuno per un figlio se da una parte costituisce la base per le introiezioni dei tratti parentali derivandone un tranquillizzante senso di appartenenza, dall'altra costituiscono il fallimento del proprio costante tentativo di individuazione, cioè di quel processo che lo porterà a sentirsi unico. Un caso particolare e non infrequente, è quello del genitore narcisista, il cosiddetto genitore di successo con il particolare gioco di identificazione che può instaurarsi. Che succede ad un figlio che si identifica con un padre del genere? Da un lato può accadere che il narcisismo del figlio si accresca aggiungendo l'identificazione con un narcisista al narcisismo proprio (con un effetto terribile), dall'altra può accadere che la tendenza alla differenziazione divenga gravemente ostacolata e si osservano spesso degli scoppi di rabbia distruttivi diretti contro il genitore o le realtà extra-familiari, tentando nel primo caso di distruggere l'immagine narcisistica del padre e riducendolo a sembianze più umane costringendolo ad affrontare il proprio fallimento e nel secondo caso realizzando concretamente ciò che il padre attua simbolicamente, ossia la distruzione degli altri in quanto irrilevanti.
Chiunque abbia avuto figli adolescenti ha passato qualche esperienza di questo genere, magari anche solo transitoriamente. Il problema è che chiunque è stato in precedenza adolescente e in qualche misura se tollera di regredire alla propria esperienza del tempo per comprendere il proprio figlio, sperimenta nuovamente la stessa difficoltà (ma con il proprio genitore). E' facile comprendere la complessità di processi (rispecchianti) di questa portata. Se tale regressione (narcisistica) permetterà al genitore di tornare a sperimentare emozioni sostenibili sarà possibile quella comprensione che determinerà il superamento del conflitto e aiuterà il figlio a tollerare la situazione di difficoltà. Se invece questo ritorno al passato farà riemergere conflitti irrisolti a cui il genitore è rimasto “fissato”, la sua reazione sarà inevitabilmente di irritazione e/o rabbia (“non so da chi tu abbia preso”) con l'esito scontato di un conflitto insostenibile, a cui il figlio dovrà piegarsi se non vuole pagare il prezzo della distruzione di un genitore (non più) idealizzato: il prezzo sarà il ritiro in se stesso, con la costruzione di un se stesso ideale, un vero e proprio persecutore, dando vita a quella sensazione di vergogna o di scarsa autostima, che spesso viene chiamata in causa (anche a sproposito), quando non si è soddisfatti di sé e quando si ha quella sensazione destabilizzante che “per quanto si faccia o si tenti di fare sembra che non basti mai”. Nella vita familiare quotidiana, l'equilibrio tra esigenze narcisistiche e quelle relazionali che spingono verso le altre persone, è continuamente messa alla prova e proprio in ciò sta una delle funzioni fondamentali della famiglia e cioè quella di essere un luogo in cui un figlio resta figlio e un genitore resta genitore, un fratello resta un fratello qualunque cosa accada. L'equilibrio di tale sistema basato sulla stabilità delle relazioni può continuamente mutare, ma resisterà se sufficientemente elastico e mobile.
A questo punto penso che possa cominciare a diventare chiaro come la questione del narcisismo sia davvero fondamentale: essa sta alla base di concezioni assai diverse dell'umanità perché quello che è in ballo è l'idea stessa di individuo come parte dell'umanità.

La Deriva Sociale Narcisistica

Potremmo ipotizzare in modo assolutamente generale, che lo spostamento delle patologie in psichiatria verso il polo narcisistico e l'aumento dell'importanza della componente narcisistica nella vita quotidiana, rappresentano una modalità difensiva di fronte alla continua tendenza a rappresentare l'individuo come costantemente insufficiente di fronte ad una quantità di stimoli ambientali costantemente crescente. Va da sé che un aumento degli stimoli comporta un aumento delle difese narcisistiche volte a mantenere un certo equilibrio interno.
Questa rappresentazione di insufficienza, proprio per la sua costanza, suona come una prescrizione sociale tanto che il buon individuo è quello che si uniforma ad essa. I messaggi quotidiani che arrivano dall'esterno (dalla televisione e dalla pubblicità ad esempio) definiscono un individuo che non sa, che da solo non ce la farebbe, che per compiti quotidiani banali ha bisogno dell'esperto di un tale o tal altro prodotto o di un qualche genere di consulente (magari globale). Una madre o un padre non saprebbero come fare con il proprio bambino se non ci fosse l'esperto travestito da psichiatra, psicologo o governante di turno a consigliare come trattarlo o addirittura amarlo, come nutrirlo in maniera sana e con quali prodotti: nascono le scuole per genitori. In tale bombardamento di stimoli ci si convince che i problemi quotidiani siano solubili solo con l'aiuto degli altri o con un mezzo esterno (promuovendo così quelle distorsioni della relazione che conosciamo comunemente col termine di dipendenza. E' sottinteso che tu con la tua testa o con le tue forze non ci arriveresti mai. Messaggio terribile ed omicida perché costituisce un attacco proprio quella struttura psichica dell'individuo che, tramite il pensiero, riesce ad escogitare soluzioni adeguate ai problemi interni ed esterni. Come meravigliarsi quindi che di fronte a questo bombardamento che mina l'autonomia del pensiero, non ci sia una reazione narcisistica adeguata e proporzionale, una tendenza a proteggersi proteggendo proprio quella parte di sé che deve essere amata per sopravvivere come individui? Prima di condannare il narcisismo sfrenato della nostra epoca, come fanno molti nostalgici dei bei tempi andati, converrebbe chiedersi se esso non rappresenti davvero una risposta ad una tendenza culturale e sociale in atto e se, in tal modo, non si vada disegnando il profilo di un essere umano contemporaneo diverso dall'individuo cui eravamo abituati a pensare, sia nelle modalità di soffrire che in quelle di amare. Sembrerebbe una considerazione pessimistica ma per chi è abituato a considerare l'umanità come inesauribilmente complessa e capace di elaborare nuovi strumenti di pensiero, questa potrebbe rappresentare una sfida a pensare l'attualità e il futuro in termini nuovi. La possibilità di considerare in un ottica più ampia la pressione della componente narcisistica sul piano individuale e sociale, potrebbe costituire una chiave strategica per pensare ad esempio ad una terapia più efficace in campo clinico (più centrata sulla consapevolezza delle proprie capacità che sui consigli di un esperto idealizzato) ed a scelte sul piano politico e sociale mirate ad evitare una difesa narcisistica condizionata da istanze regressive altrimenti insostenibili (scegliendo strategie di responsabilizzazione piuttosto che di controllo sanzionatorio). Nella società globalizzata, in tempi di rapido cambiamento, l'impressione immediata che facciamo può diventare molto più importante della nostra integrità e sincerità, qualità che continuano ad essere apprezzate invece nelle comunità più piccole e stabili. Nel 1831, Alexis de Tocqueville faceva notare come una società che offre pari opportunità a tutti possa generare nei cittadini la preoccupazione di come dimostrare la propria superiorità. Senza un sistema di classi che fornisce livelli visibili di status sociale, i cittadini tentano di accumulare prove osservabili della loro superiorità (i cosiddetti status symbol), poiché apparire inferiori corrisponderebbe al fallimento personale. La possibilità di una riedizione di un sistema classista sembra indubbiamente anacronistica, ma riportare l'individuo ad una realtà in cui fare quello che si può può essere motivo di soddisfazione potrebbe spezzare questo vortice di idealizzazione in cui i singoli esseri umani si ritrovano ad essere centrifugati (ogni successo di oggi è il trampolino per quello di domani ...)
Freud nel saggio del 1929 “Disagio della Civiltà” sosteneva che il comandamento ama il prossimo tuo come te stesso fosse la più forte difesa contro l'aggressività umana. Il comandamento è irrealizzabile, un inflazione così grandiosa dell'amore può solo sminuirne il valore. Nella società civile chi si attiene al comandamento si mette solo in svantaggio rispetto a chi non se ne cura. Che immane ostacolo alla civiltà deve essere la tendenza aggressiva, se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua esistenza. La cosiddetta etica naturale non ha qui da offrire nulla al di fuori della soddisfazione narcisistica di potersi ritenere migliori degli altri.
In questi anni in cui il mondo sembra più cattivo della sommatoria di quanti lo costituiscono, la tentazione della bontà è molto forte. La bontà, l'altruismo, sono diventati indubbiamente un prodotto di largo consumo e molte sono le associazioni che a livello locale e internazionale se ne occupano. Sono in atto inoltre fenomeni di marketing in cui associazioni di volontariato a base di altruismo ed “essere al servizio degli altri”, fungono da veicolo per messaggi pubblicitari. Qualche mese fa era in piedi una campagna pubblicitaria in cui se andavi da un certo parrucchiere (e non da un altro) una parte di quanto devoluto all'acconciatore veniva destinata all'UNICEF. Non sarebbe stato masochisticamente più semplice farsi la messa in piega a casa per una volta e destinare il quantum direttamente? L'idea che si vorrebbe far passare è che il parrucchiere buono sacrificherà una parte dei propri guadagni per i bambini sfortunati, ma se molti penseranno che quel parrucchiere è più buono degli altri alla fine la bontà trionferà e sarà il più buono ad essere il più ricco. Il tutto associato ovviamente ad un veicolo narcisistico: la cura dei propri capelli, per cui tanto più spesso ti prenderai cura di loro (i capelli, cioè ciò che mantiene stabile la temperatura della tua testa) tanto più aiuterai quei poveri bambini. Quanto bene si può fare prendendosi cura di sé. Ho l'impressione che a furia di ironizzare su questo tema mi convincerò che amare il prossimo tuo come te stesso sia proprio andare da uno specifico parrucchiere rigorosamente unisex (non me ne vogliano i barbieri vittime di un maschilismo fuori moda). Concluderei con una considerazione che a questo punto dovrebbe essere qualcosa di più che una battuta: spesso si pensa che “essere cauti nella critica e generosi nella lode” sia una massima rispettabile, ma, alla luce delle conoscenze che abbiamo messo insieme in questo lavoro, sorge il dubbio che questa massima sia tanto desiderabile nei confronti dell'altro quanto narcisisticamente rischiosa se applicata a se stessi. Qualcuno potrebbe obiettare che questi due pesi e due misure potrebbero apparire masochistici ma sarebbe un altro discorso.


giovedì 31 ottobre 2013

La Consulenza Analitica Aziendale


Premessa

Per molti anni ho pensato che un'approccio psicologico complesso, analitico, non basato su semplificazioni cognitiviste o comportamentiste (una ricetta per ogni problema), potesse essere di aiuto a quegli imprenditori, a quei manager, a quelle aziende che ad un certo punto della loro storia si fossero venuti a trovare in situazioni “difficili”, in cui il buon senso sembra insufficiente e le logiche razionali appaiono incapaci di fornire una chiave di lettura utile. Per molti anni ho avuto notevoli resistenze ad approcciare un ambito così apparentemente lontano da quel mondo fatto di irrazionalità e di non senso logico a cui è avvezzo chi, come me, si occupa a tempo pieno di psichiatria. Le mie resistenze sono state anche probabilmente condizionate dallo strapotere che l'approccio cognitivista ha avuto, dagli anni novanta in poi, in tutte le scuole di management del mondo occidentale, raggiungendo il massimo sviluppo nelle tecniche cosiddette di coaching. Parole d'ordine come lavoro in team, fare squadra, sviluppare comportamenti finalizzati al successo ed al raggiungimento (secondo un modello sportivo dallo scarso spirito olimpico) la condizione di leader di mercato, hanno costituito il prodotto che una psicologia da mercanti ha venduto al mondo aziendale, una mera riproposizione del modello del buon padre di famiglia (a cui i vari coach di successo in ambito sportivo si sono ispirati). Queste semplificazioni banalizzanti sono tutte fondate su un principio ovvio della vendita: dai alle persone ciò che le persone desiderano e cioè, assecondando una sorta di ideale collettivo, l'idea del successo. Una impostazione di questo genere è sembrata una promozione del prodotto perfetta a molti manager di marketing, e sarebbe probabilmente rimasta indiscutibile, se non fosse per un piccolo effetto collaterale che questo approccio finisce nel tempo col determinare, che potremmo definire (per essere in linea con le logiche marketing oriented) con una specie di slogan: Assenza di Spirito Critico.

Un Nuovo Approccio

Nel gergo psicoanalitico c'è una parola che è anche ampiamente utilizzata in psichiatria: Insight il cui significato suona più o meno come Consapevolezza.
Molte persone hanno l'impressione di avere una notevole consapevolezza di sé, tanto che molte volte mi son sentito dire dai miei pazienti che le cose da sapere le sapevano tutte e che nonostante questo le cose non andavano bene. E' molto difficile in questi casi far passare l'idea che a volte, quando i conti non tornano, bisogna andare a cercare tra ciò che non si sa, per avere una nuova consapevolezza, un obiettivo altamente condivisibile come direbbero i venditori di psicologia aziendale modernisti. Ma per ottenere questo, bisogna sapersi mettere in discussione, una frase spesso inflazionata ed utilizzata in un atteggiamento tanto in voga oggi che potremmo definire come falsa modestia, una specie di captatio benevoletiae che ha spesso alla base una supponente condiscendenza, ma che ha notevole significato da un punto di vista psichico. Ciò che hanno fatto fino ad oggi le varie tecniche psicologiche di management, non è stato altro che alimentare all'interno delle aziende, o nei singoli manager, la percezione narcisistica di sé cioè quella percezione che più corrisponde a quanto abbiamo idealizzato (sia a livello individuale che come gruppo organizzato), in modo onnipotente e megalomanico. E' la stessa cosa che fa un bambino (di due o tre anni) che inconsapevole dei propri limiti si crede capace (suscitando l'amorevole simpatia degli adulti) di qualsiasi cosa, quel qualsiasi cosa che i genitori idealizzati, come (inevitabilmente) onnipotenti, sanno fare. In questa ottica sono andate tutte le logiche delle certificazioni di qualità nel tempo, che partendo da obiettivi come la qualità totale a zero difetti (difficile pensare ad un progetto più onnipotente di così) è approdata alla necessità di una verifica costante dei processi, che migliorabili all'infinito, vanno raffinati ogni sei mesi (o meno), creando soltanto nuovi costi e nuovi posti di lavoro negli enti di certificazione, e la sensazione costante paradossale di essere perennemente carenti . Purtroppo ben presto noi tutti, fin da bambini, ci rendiamo conto che l'ideale di sé (o in maniera più comprensibile un sé ideale), altamente desiderabile, è difficilmente raggiungibile e questo provoca molta vergogna. E' quello che si prova nelle aziende nel momento in cui non si raggiunge un obiettivo, un budget, o si incappa in una chiusura di bilancio senza gli incrementi di fatturato o di utile previsti. Con il diventare adulti (in maniera sana) questa immagine ideale viene trasportata dall'esterno (i genitori o le altre figure adulte di riferimento) all'interno (del famigerato Io) e assume quelle caratteristiche etiche e morali alla base dei nostri così spiacevoli (ma anche sani) sensi di colpa. In ultima analisi potremmo semplificare affermando che il senso di colpa nasce proprio dalla nostra incapacità di essere come dovremmo, ultimo baluardo di quella idealizzazione che sembra quasi immortale e che spesso è comunque utile alle aziende nel fornire la spinta verso il progresso. Per sopravvivere a questo, e per raggiungere nel tempo gli obiettivi, non ci resta che accettare le frustrazioni dei nostri limiti e convivere con essi in modo il più possibile consapevole.
La ricetta aziendale per i momenti difficili, in una tale ottica, non è più quindi quella di individuare scostamenti da modelli idealizzati o da previsioni di bilancio a volte irrealizzabili, causa frequente di errori fatali (frequenti nelle strategie di crescita ad esempio) e correggerli, ma piuttosto quella di aumentare la consapevolezza di sé e dei propri mezzi e, all'interno di questi limiti, valutare la possibilità di una convivenza, talora una sopravvivenza, che permetta nel tempo quei cambiamenti alla base di uno sviluppo futuro. C'è la rinuncia quindi alla logica (mutuata dalla politica economica così condizionata dall'economia finanziaria) del tutto e subito, in cui la frustrazione è intollerabile, in un epoca in cui la velocità sembra la password per il successo, per sostituirla con una nuova logica legata ad altre parole: pazienza, perseveranza, capacità di analisi, parole che sottendono un concetto del tempo diverso dall'hic et nunc, ma che permette di considerare il passato, la storia, come un bagaglio prezioso che permetterà al presente di essere al servizio del futuro. Non bisogna teorizzare una fabbrica lenta come predica qualcuno o lo slow business o lo slow food per riappropriarci di una percezione del tempo al di fuori del quale l'esistenza non avrebbe e non ha senso.

Concludendo

In considerazione di questa epoca di crisi che altro non è che un cambio delle regole di un sistema arrivato ormai al capolinea, in cui ci ostiniamo (narcisisticamente) a definire paesi emergenti o in via di sviluppo quelle realtà economiche che costituiscono di fatto un nuovo modello, in cui la gestione e l'accessibilità alle informazioni non è più possibile se non in un'ottica di condivisione e trasparenza, ho avuto l'impressione che l'offerta di una consultazione più votata alla consapevolezza che al successo, più alla percezione del contenuto che al perfezionamento del contenitore, più legata al tempo vissuto che al tempo perduto, potesse fornire una chiave di lettura utile per interpretare situazioni difficili in cui il buon senso di cui è dotato ogni imprenditore, ogni manager non basta e le eventuali soluzioni passano attraverso logiche affettive, l'individuazione delle false credenze, dei vissuti di perdita la cui interpretazione è fondamentale per per ottenere quell'insight che in psichiatria distingue tra “normalità” e “follia”. Riappropriandoci del senso del tempo, potremmo dare di nuovo senso ad un concetto antico secondo cui a volte si può perdere qualche battaglia e vincere una guerra.  

martedì 24 settembre 2013

Quando Seve uno Psichiatra?


Ammesso che la domanda sia lecita, in considerazione dell'opinione largamente condivisa che reputa psichiatri e psicologi (indistinti) come assolutamente inutili, penso comunque che valga la pena tentare di spiegare in poche parole chi potrebbe trarre beneficio dalla visita di uno psichiatra. Non me la sono sentita di fare un elenco di patologie di pertinenza, anche perché frequentemente mi viene chiesto quale sia la mia specializzazione come se quella in psichiatria fosse eccessivamente vaga. Molte persone pensano che ansia, depressione, panico, ossessività, disturbi dell'alimentazione, di personalità, ludopatia e dipendenze varie, paranoia, psicosi etc. siano campi separati in cui si dovrebbe essere specificamente specializzati. Purtroppo gli esseri umani sono piuttosto complessi e nel caso di una iper-specializzazione alcuni pazienti si potrebbero trovare nell'imbarazzante situazione di essere visitati da un'intera equipe. Anche se l'integrazione degli approcci è uno dei temi fondamentali che caratterizzano il nostro operato e consideriamo il lavoro d'equipe come una risorsa importante della cura, bisogna fare attenzione a non rispondere al senso di smarrimento che spesso il paziente ci porta, con un eccesso di interventi che finirebbero probabilmente con l'accrescere il senso di disagio. Quindi una terapia non è la sommatoria complessa di singoli interventi su specifici sintomi, ma la semplificazione quanto più comprensibile possibile di una situazione considerata difficile da chi la vive. Sappiamo come la cura medica in senso lato cominci con il dare il nome ad un sintomo. Il fatto di riconoscerlo è di per sé rassicurante perché dà la sensazione che qualunque cosa sia, sia nota e in quanto tale curabile. In pratica la visita di uno psichiatra è utile per chiunque soffra di un disagio, di un cambiamento spiacevole rispetto alla propria normalità a cui non sa dare un nome.
E' vero che siamo tutti in grado di comprendere che se non dormiamo soffriamo d'insonnia, se non mangiamo potremmo avere un'anoressia, se non riusciamo a concentrarci e perdiamo la memoria potremmo avere una forma di Alzheimer. Tutti sappiamo inoltre che la paura è normale, l'ansia è una risposta umana a situazioni che non riusciamo a comprendere, piangere non è una malattia, che le fobie comuni di ragni, rettile e topi riguardano una moltitudine e che essere tristi per un lutto è talmente normale da essere una necessità. Le persone ormai sono spesso capaci di informarsi attraverso internet (e chi sta leggendo ne è un esempio) e sanno molto su disturbi da attacchi di panico, disturbi ossessivo compulsivi, depressione, somatizzazioni e disturbi del sonno, ma quello che non sanno di solito è perché dovrebbero avere tale disturbo e come fare a controllarlo o a librarsene. Questo potrebbe esser un buon motivo per rivolgersi ad uno psichiatra. Dare un senso alle proprie sensazioni e farci i conti spesso serve.

martedì 30 luglio 2013

A Proposito della Fobia del Telegiornale


Sappiamo che le fobie sono paure eccessive associate a comportamenti di evitamento che hanno lo scopo di restringere l'interazione con ciò che è temuto e liberare l'individuo che ne soffre dall'angoscia. Dal punto di vista psicologico spesso le fobie costituiscono un tentativo di modulare angosce connesse a competitività e timori di ritorsioni (la famosa angoscia di castrazione delle tematiche edipiche) e da sforzi per fare fronte alla paura di perdere il controllo (problematiche connesse all'autonomia). I pattern contro-fobici sono quelli in cui un oggetto o una situazione temuta vengono cercati attivamente. Le ripetizioni contro-fobiche, nonostante appaiano di un certo successo, raramente sfociano nella padronanza dell'apprensione fobica, ma possono portare ad una ripetizione compulsiva dell'attività fino a determinare un disagio notevole. Raramente comunque questa modalità di comportamento risulta distonica (soggettivamente indesiderabile) e quindi raramente i pazienti chiedono un trattamento, nonostante questi comportamenti a volte possano risultare francamente rischiosi o autodistruttivi. Un esempio tipico (senza andare a pescare nelle condotte a rischio di acrobati e funamboli) è quello di quelle persone che amano i film horror di cui hanno evidentemente molta paura (altrimenti risulterebbero per lo più noiosi). Proprio per vincere questa paura tendono a sviluppare una predilezione per questo genere di film nonostante gli determinino notevoli problemi sul piano della qualità di un sonno disturbato da spiacevoli incubi.
Spesso le fobie riguardano oggetti che di per sé determinano una sensazione di paura nella maggior parte delle persone (la paura di entrare nella gabbia di un leone per esempio), mentre altre volte l'oggetto diventa fonte di paura in funzione di ciò che l'individuo gli attribuisce: è il caso dei ragni che di per sé sarebbero inoffensivi a meno che non gli vengano attribuite caratteristiche particolarmente pericolose come quelle della famosa vedova nera, attraverso un processo di generalizzazione che porta ad uno stato acuto di angoscia che ha molte caratteristiche dello stato paranoide. Non è questo il luogo in cui possiamo interpretare il simbolismo del ragno che ha radici che affondano nella notte dei tempi (radici – terra – madre terra – madre ….), quindi bando alle associazioni e occupiamoci senza altri preamboli del nuovo genere di film horror che va in onda tipicamente ai pasti, e che noi comunemente chiamiamo telegiornale (TG per gli amici). Un mio collega argentino ultraottantenne psicoanalista e terapeuta di coppia e della famiglia, qualche tempo fa rifletteva su come, dopo oltre 50 anni, la televisione ha fatto ingresso nelle nostre case ed è diventata a tutti gli effetti un membro della famiglia il cui parere è di per sé autorevole. Jannacci negli anni '70 fa aveva intuito questo effetto nel testo di una bellissima canzone: “Quelli che ...” “...l'ha detto il telegiornale...”. Nel tempo quindi la televisione si è seduta alla tavola delle famiglie ed è diventata l'organizzatrice della conversazione “da pasto”. Molti di noi si sono adattati al punto di riuscire a dire (a 40 anni da Vermicino), dopo la notizia di un centinaio di morti in un incidente aereo: “scusa cara … mi passi il pane?...”.Quindi sembra che siamo riusciti a creare due situazioni che hanno il sapore della fiction: quella del telegiornale che possiamo vivere come un qualcosa di non reale e quella della famiglia a tavola con il TG che mangia tranquillamente tra una catastrofe e l'altra in un clima tra il surreale ed il grottesco.
In questo contesto, che ho probabilmente adulterato allo scopo di ottenere una scenografia idonea allo sviluppo di una fobia, si determinano nel tempo quegli adattamenti individuali che ciascuno di noi riesce a mettere in atto sulla base della propria struttura di personalità. Come ho tentato di spiegare nelle righe introduttive, gli adattamenti contro-fobici che sono costituiti dal sottoporsi quotidianamente a questo trattamento con tutti i meccanismi di difesa che portano al distacco ed all'isolamento degli affetti, sono di solito sintonici. Quindi non deve stupire il fatto che siano solo quelle persone particolarmente impressionabili e che sviluppano un disturbo fobico a lamentarsi e a chiedere eventualmente assistenza. La componente fobica può essere determinata attraverso diversi meccanismi tra cui: l'identificazione con l'aggressore e quindi la paura di mettere in atto comportamenti efferati in uno stato di discontrollo, una specie di raptus, l'identificazione con la vittima o più semplicemente (ma non dal punto di vista psicologico) attraverso la paura della paura che è quella sensazione che coglie gli individui di fronte alla possibilità di confrontarsi con qualcosa che non conoscono e che potrebbe determinare uno stato acuto di angoscia. E' il problema di non sapere in anticipo che cosa terribile il telegiornale oggi ci proporrà per pranzo. Sono questi i casi in cui si sviluppa la condotta di evitamento che si può mettere in atto semplicemente spegnendo la televisione, allontanandosi dall'apparecchio interrompendo il pasto o attraverso quel comportamento molto fastidioso (per gli altri) che è lo zapping compulsivo che è fonte di notevole irritazione e furiose discussioni. In alternativa (alla fuga) queste persone possono soffrire di uno stato di angoscia spesso associata a somatizzazioni fino a sfociare in un vero e proprio stato di panico. Nella mia pratica clinica mi ritrovo sempre più spesso ad avere a che fare con persone che non riuscono più a guardare il telegiornale fino a sviluppare una fobia o una vera e propria ossessione. Qualcuno potrebbe chiedersi a che cosa serva rivolgersi ad uno psichiatra quando basta semplicemente premere un tasto del telecomando? Ed è in effetti quello che io chiedo a questi pazienti e come spesso accade in psichiatria, scopriamo che un sintomo non è altro che la punta (evidente) di un iceberg (sommerso nel mare dell'inconscio) e che può essere l'occasione per ciascuno di noi per capire un po' di più se stessi. Agli eroi che sfidano il telegiornale senza battere ciglio e facendo la scarpetta questa possibilità è inesorabilmente preclusa.

mercoledì 24 luglio 2013

Psicopatologia dell'Uomo Politico Italiano


Non c'è grande simpatia per gli uomini politici. La cosa sembrerebbe scontata se non fosse per il fatto che siamo noi stessi a determinarne l'esistenza. Questo un po' dipende da una forma di invidia che ci fa pensare che saremmo migliori se fossimo al loro posto e un po' dal comportamento spesso arrogante che il politico medio assume dopo un po' di tempo che si ritrova a gestire un potere, che di solito non è abituato a sostenere. Il prezzo e quello di una perdita più o meno parziale di quell'equilibrio che aveva fatto intravedere ai potenziali elettori e che di conseguenza ne aveva determinato l'elezione.
Nella mia pratica di psichiatra nel servizio pubblico, mi sono spesso imbattuto in ottimi colleghi che una volta diventati primari si sono rivelati davvero pessimi. Pensavo che il primariato a contratto della durata di cinque anni, avrebbe migliorato la situazione in tal senso, ma purtroppo le conferme dopo i cinque anni sono diventate prassi e il timore della non riconferma ha contribuito ad implementare quei comportamenti nei colleghi primari che, più che volti a migliorare i servizi, risultano prevalentemente finalizzati a mantenere loro stessi nel ruolo.
Sulla base di questa esperienza mutuata nei servizi di psichiatria ho pensato che nei casi in cui si determini una concentrazione di potere, bisognerebbe porsi il problema dei potenziali effetti collaterali che questo potere potrebbe determinare in soggetti incapaci di tollerare carichi di responsabilità che eccedano le loro capacità. Il prezzo che si paga è lo sviluppo di comportamenti condizionati da una psicopatologia devastante per il politico di turno e catastrofica per coloro che dovrebbero essere i beneficiari della loro gestione cioè coloro che lo hanno eletto.
L'essere umano ha molti problemi ad pensarsi come soggetto a tempo determinato. La mitologia greca è ricca di esempi di uomini che nel tentativo di perdere il loro status di mortali hanno pagato un prezzo altissimo (Prometeo rimediò una bella cirrosi). Il mito aveva proprio lo scopo di ricordare agli uomini la propria mortalità e attraverso questa consapevolezza, essere d'aiuto nel mantenere un certo equilibrio. Anzi, a giudicare gli dei immortali dai propri comportamenti privi di principi etici e morali sembra proprio che gli umani, con la loro certezza della fine siano stati i depositari del buon senso, come ci racconta Omero a proposito di Ulisse.
L'uomo politico italiano quindi con la sua possibilità di riconferma a tempo indeterminato, rischia nel tempo di perdere la consapevolezza dei propri limiti e di credersi una sorta di semidio che anela all'immortalità. Sappiamo tutti come il tempo minimo di una legislatura che da diritto ad una pensione a vita sia stato motivo di sopravvivenza di molti governi che non avrebbero avuto alcun senso sul piano concreto. Un esempio lampante è sicuramente quello del governo attuale. Perpetuare la legislatura fino alla scadenza da indubbi vantaggi ai politici eletti e nonostante le critiche che piovono copiose da parte di cittadini delusi, non sembrano interessati alla perdita temporanea di consenso, anche perchè le eventuali prossime elezioni sono lontane e la memoria degli elettori è notoriamente corta. D'altra parte nessuno può negare che è veramente molto difficile trovare in una qualsiasi popolazione (in senso statistico) una maggioranza che abbia tratti masochistici sufficienti da prendere delle decisioni contro il proprio stesso interesse.
Sembra quindi che i nostri politici dal momento in cui vengono eletti per la prima volta, di fronte al terrifico quinquennio in cui potranno esercitare il proprio potere, diventino inevitabilmente vittime di una sindrome: la “sindrome da potere cronico”. Una via paradossale d'uscita da tale situazione sarebbe quella di conferire incarichi a vita in modo tale che i soggetti incaricati non debbano preoccuparsi della propria rielezione. E' quello succede a molti senatori a vita, che in una condizione di tempo indeterminato, il famoso “per sempre”, appaiono diventare particolarmente saggi. Un altro esempio di potere vitalizio è quello del papa, che nel tempo sembra affinare le proprie capacità di gestione senza mostrare segni di cedimento (ad eccezione del caso unico di Benedetto XVI°). Ci sarebbe però da precisare che in questo caso i potenziali eletti vengono da una ristretta cerchia di eleggibili forgiati in una scuola di managment della durata di alcuni decenni (i cardinali).
Il pragmatismo anglosassone ha capito l'esistenza di questo pericolo fin da tempi immemori e ha definito costituzionalmente il tempo in cui un singolo uomo può gestire il potere. Il tempo determinato permette a questi uomini di mostrarsi agli altri come simili, come umani che mangiano, bevono, ridono, stanno con i figli o con i nipoti (Obama ne è un esempio). Questo assetto sembra garantire sia il politico stesso che esce dalla sua esperienza di responsabilità con un bagaglio tale da permettergli un futuro da saggio comunicatore, sia per la democrazia che si può permettere in tal modo pluralità di visioni nel tempo e in alcuni casi una certa alternanza politica.
Il concetto di alternanza politica in Italia è assolutamente sui generis, ed è più mutuato dalla psicologia infantile che dal pragmatismo anglo sassone: “adesso tocca a me giocare perchè fino ad adesso hai giocato tu”. Era questo il senso dell'alternanza grottescamente inaugurato dalla coppia Craxi-De Mita qualche decennio fa, che anziché rimanere nella storia come esempio di imbecillità è diventato il fondamento del nostro sistema politico cosiddetto maggioritario.
Ma ritorniamo alla sindrome da potere cronico. Sembra che questo disturbo, per chi ne soffre, nasca proprio nel momento in cui si raggiunge il cosiddetto successo e comincia la paura di perderlo. La frase celebre di uno dei principali manager politici italiani del dopo guerra “il potere logora chi non ce l'ha” ha proprio questo senso ma sarebbe più chiara se la articolassimo chiarendo la coniugazione dei verbi trasformandola in “il potere logora chi non ce lo avrà” oppure la svelassimo con una riedizione più manifesta: “il potere logora chi teme di perderlo”. In questo caso appare evidente come l'aspetto distruttivo del potere stia nella possibilità della perdita che questo potere include. Freud sosteneva in uno scritto su “coloro che soccombono al successo” che il lavoro psicoanalitico insegna che le forze della coscienza morale che provocano la malattia in conseguenza del successo, anziché come al solito con la frustrazione, sono intimamente connesse con il rapporto precedente con il padre e con la madre, come del resto lo è il nostro senso di colpa in generale. In uno scritto successivo sui “delinquenti per senso di colpa” Freud riscontrava come in alcuni casi il senso di colpa era precedente l'atto illecito e non conseguente ad esso. Bisogna ricordare che il parricidio e l'incesto con la madre sono i due grandi delitti degli uomini, gli unici che nella società primitiva venivano perseguiti ed esecrati per sé stessi. Dobbiamo inoltre ricordare come l'umanità abbia acquisito in relazione al complesso edipico quella coscienza morale che ora è considerata come una forza spirituale innata.
Ma come possiamo ipotizzare che il senso di colpa possa giocare un ruolo importante nella delinquenza umana? Freud sosteneva che è facile osservare come nei bambini che diventano “cattivi” per sollecitare una punizione, dopo essere castigati essi si tranquillizzano e si pacificano. Spesso l'indagine analitica porta sulle tracce del senso di colpa che li aveva appunto indotti a procurarsi il castigo. Per gli adulti si devono eccettuare quei delinquenti che commettono atti criminosi senza alcun senso di colpa cioè quei casi di psicopatia sostenuta dal narcisismo maligno di Kernberg. Ma per ciò che riguarda la maggior parte dei delinquenti questo punto di vista potrebbe chiarire alcuni lati oscuri della loro psicologia e fornire un nuovo fondamento psicologico alla pena.
A questo punto qualcuno (io stesso per esempio) potrei sospettare una certa manipolazione delle parole di Freud contestualizzandole nel caso della sindrome da potere cronico. Ma se noi sostituissimo la definizione di atto delinquenziale che Freud usa in tale scritto con la parola “misfatto” che in precedenza aveva usato per definire tali comportamenti riferiti ai bambini, forse ci farà sembrare la teoria del senso di colpa applicata ai misfatti dei politici dopo la loro elezione meno speculativa. Freud inoltre ricordava come la preesistenza del senso di colpa ed il ricorso, per una sua razionalizzazione, al misfatto era già nota anche a Nietzsche e traspariva nelle parole di Zarathustra “Del pallido delinquente”.
Ritornando ai certi nostri amati uomini politici potremmo ipotizzare che il senso di colpa quindi preceda i loro misfatti che una volta realizzati consentiranno loro la salvifica redenzione attraverso l'espiazione della pena. Sono questi i casi di politici logorati dalla fobia di perdere il potere. Non so però quanto questa interpretazione possa darci elementi sufficienti per comprendere invece quei casi di uomini politici che non commettono atti sufficienti per una punizione in senso legale, casi in cui di conseguenza mancando la pena, il senso di colpa non potrà essere espiato. Chiunque potrebbe dire che sul piano psicopatologico questi sembrerebbero i casi di minor gravità. Ad una riflessione più approfondita però potremmo anche sospettare che nei casi ipotizzati come meno gravi, il senso di colpa diventi per certi versi meno presente e quindi potremmo pensare ad una variante, sebbene più presentabile, più subdola, più incline a quelle logiche che sfuggono al senso di colpa e lo sostituiscono più o meno marcatamente con il senso di vergogna. Siamo in un ambito meno esplicito in cui le cose nascoste sono prevalenti rispetto a quelle manifeste, l'implicito domina l'esplicito. Ce ne accorgiamo perchè le parole nella bocca di questi soggetti diventano allusive, a volte francamente elusive rispetto al significato che comunemente può essere ad esse attribuito. L'eloquio che ne deriva è quel politichese di cui spesso i giornalisti abusano dimenticandosi di essere comuni mortali e di partecipare alla mensa degli dei solo come spettatori non paganti. E quando le parole perdono il loro significato e ne acquistano uno proprio sulla base del contesto in cui vengono pronunciate, siamo in uno stile di comunicazione che i sistemici definivano a doppio legame, il cui effetto è quello di determinare dubbi e incertezze in chi ascolta. Non siamo nelle braccia di una madre buona che ci permetterà di affrancarci dai nostri misfatti con una pena equa, ma nelle mani fredde di una madre schizofrenogena che ci porterà giorno dopo giorno e in maniera doppiamente inconsapevole alla più profonda follia. Forse è per questo che molti politici non suscitano simpatia ...

venerdì 12 luglio 2013

Ritratto del femminicida


Premetto che le generalizzazioni su cui mi baserò per tentare di fare un quadro della struttura di personalità di un femminicida, non consentono l'individuazione di singoli casi, che in virtù delle peculiarità di ciascun essere umano, sfuggono inevitabilmente a qualsiasi tentativo di inquadramento in un cluster definito. L'applicazione di principi generali ai singoli casi ha un costo di falsi positivi e falsi negativi che vanificherebbe di fatto lo sforzo in sé.
Questa riflessione ha il senso di fornire delle considerazioni di massima che possano dare una spiegazione sul come e sulla base di quali presupposti un uomo possa arrivare ad uccidere una donna con cui abbia, o abbia avuto in passato, una relazione o meno.
In 25 anni di lavoro come psichiatra, ho incontrato molte donne spaventate da uomini più o meno oggettivamente o solo potenzialmente violenti, mentre non ricordo di aver mai avuto a che fare con un femminicida o un uomo con intenzioni seriamente tali, non avendo comunque un'esperienza di psichiatria carceraria. Potrei supporre che sia molto raro (non per presunzione, ma sulla base delle diverse migliaia di pazienti con cui ho avuto una relazione in questi 25 anni) che potenziali femminicidi consultino uno psichiatra o uno psicoterapeuta per ottenere un qualche genere di aiuto. Da ciò possiamo presupporre che queste persone in generale abbiamo poca propensione a percepire l'angoscia anche se ci capita di vederli piuttosto contriti nelle immagini televisive dell'arresto, forse anche per un sentimento di vergogna per essere stati scoperti e catturati. Alcuni sapranno come la differenza fra il senso di colpa ed il senso di vergogna stia genericamente negli aspetti relazionali, dal momento che la vergogna si riferisce alla perdita dell'ideale di sé, mentre la colpa comprende la perdita dell'altro. Ovviamente vergogna e colpa non si presentano in una logica antitetica ma piuttosto in un continuum in cui le polarizzazioni sono solo teoriche.
Un'altra considerazione è che spesso il femminicida, a parte episodi di violenza nei confronti della vittima (quando c'è relazione), proprio in virtù della grande attenzione che dà agli aspetti idealizzati di sé, risulta avere una immagine pubblica tutt'altro che sospetta tanto che nelle testimonianze di vicini di casa e conoscenti (amici in senso stretto di solito non ne hanno) risultano persone gentili e nel complesso particolarmente tranquille. Siamo quindi di fronte a personalità dissociate in cui il falso sé funzionante, potrebbe non reggere ai sentimenti di angoscia nel momento in cui le vittime di questi uomini tentano di sottrarsi al loro dominio, minando così pericolosamente la loro cosiddetta autostima. Anche l'autostima di cui tanto facilmente quanto a sproposito si parla nei saloni di bellezza (si chiama marketing) non costituisce concetto di facile comprensibilità. Potremmo definirla come la capacità nel tempo di mantenere un'immagine interna coerente ed integrata di sé. La perdita dell'autostima porta in genere ad una sensazione di angoscia di frammentazione, una sorta di derealizzazione (perdita di contatto con la propria realtà) che, se insostenibile, diventa il presupposto per l'eliminazione della parte cattiva dell'oggetto frustrante e mancante fonte di tanta sofferenza, nel tentativo di preservarne il buono. In tali persone l'altro è concepito solo come funzionale al mantenimento della propria integrità e la sensazione di disintegrazione viene proiettata all'esterno sotto forma di annientamento dell'oggetto cattivo. Quando parliamo di proiezione in una parte della psichiatria si allude implicitamente alla paranoia e noi sappiamo come la gelosia non sia altro che una forma di paranoia.
Il concetto chiave, che non ho ancora nominato, che ci permette di avere una visione d'insieme della struttura di personalità di un potenziale femminicida e che ci dà una possibile spiegazione dei diversi casi di femminicidio è quello di narcisismo. Sappiamo quanto il narcisismo sia importante per strutturare il nostro carattere, quanto sia utile nelle logiche di autoaffermazione e fondamentale nel mantenimento della nostra famigerata autostima (e quindi nell'economia dei saloni di bellezza). Dal punto di vista evolutivo il narcisismo è il punto di partenza che ci permette di prendere coscienza di noi stessi nella fusione con l'altro che non viene percepito come separato. Purtroppo nel tempo qualsiasi bambino (molto piccolo) sperimenta che l'oggetto d'amore (di solito la madre) è anche frustrante e che a volte non c'è, gettandolo nella disperazione più totale e ad una protesta non sempre ascoltata. Nel tempo, se le cose non si complicano, e se la frustrazione come diceva un mio collega qualche decennio fa è ottimale, riusciamo a tollerare un certo grado di separazione e questa separazione ci permette di sperimentare progressivamente l'altro come possibile oggetto con cui avere una relazione. Nel tempo acquistiamo sempre più la capacità di separarci in virtù della possibilità di mantenere un'immagine interna dell'oggetto anche in sua assenza. In tale contesto il termine oggetto (altro) è utilizzato come alternativa al soggetto (io).
Può accadere in alcuni casi che questo processo di individuazione e di formazione delle logiche relazionali si arresti precocemente, determinando una incapacità di tollerare la frustrazione se non al prezzo di cancellare l'oggetto esterno e di tornare ad uno stato indefinito in cui l'altro esiste solo in funzione delle proprie necessità e diventa quindi nient'altro che una estensione di sé. A questo punto gli altri non hanno più vita propria ma sono solo oggetti su cui proiettare parti non integrate di sé. Se la partner si sottrae a questa proiezione la conseguenza inevitabile è la perdita della propria coesione interna con uno stato conseguente di angoscia cosiddetta di frammentazione. Per uscire da questo stato più o meno celermente una possibilità è la cancellazione (a livello di pensiero) o l'annientamento (a livello fisico) dell'altro. Queste considerazioni possono darci un'idea di cosa possa accadere ad un uomo che uccide dopo anni di violenze una partner che tenti di sottrarsi alla relazione. La cosa che mi colpisce è come le donne riescano a cogliere questo pericolo in maniera lucida tanto che percepiscono spesso chiaramente come la separazione possa costituire il momento di rottura di un equilibrio violento e di come si sentano in tali frangenti realmente a rischio. Certo è vero che l'omicidio accade in una minoranza dei casi e che spesso, anche per motivi fortuiti (l'uomo trova un'altra “vittima”) le cose si risolvano senza fatti tragici. Resta l'impressione che quando una donna avverte questa sensazione di pericolo imminente ci sia sempre un fondamento che va oltre le logiche razionali. Questo spiega anche il perchè molti femminicidi non vengano evitati nonostante le continue richieste d'aiuto delle vittime: molte volte accade che queste donne portino solo la paura, condizionate anche dalle manipolazioni del partner, e non le prove inoppugnabili di un reale pericolo. Purtroppo quando queste prove esistono può essere troppo tardi.
Esistono comunque altri casi di femminicidio in cui non ci sono rapporti tra la vittima e l'assassino e spesso in tali casi si riscontra una certa tendenza alla serialità. Anche in questo caso e forse in maniera eclatante, il narcisismo costituisce la chiave di lettura che ci permette di capire come possano funzionare (si fa per dire) le cose. Il narcisismo in questo caso assume una forma particolare (maligna diceva un mio collega) e si associa a valenze sadiche e psicopatiche in una miscela terribile di cui violenza, sofferenza, spietatezza sono le componenti fondamentali. Abbiamo a che fare con individui per cui l'altro non è oggetto altro da sé ma semplicemente una cosa che acquista vita solo nella sofferenza in una logica proiettiva. A proposito, nella proiezione, proprio come accade al cinema, dove uno schermo acquista una vita che altrimenti non avrebbe, succede che pensieri propri, sia negativi (su basi fobiche), che positivi (in base alla speranza), vengano attribuiti ad altri senza averne consapevolezza. Questo meccanismo è fonte frequentemente di notevoli fraintendimenti.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto come mai il femminicida sia così frequentemente maschio, dati i rari casi di maschicidio. Mi rendo conto che la domanda potrebbe suonare come bizzarra ma non mi sembra del tutto scontata e purtroppo neppure semplice. Cercherò comunque di rendere le cose comprensibili al prezzo di una certa banalizzazione focalizzando l'attenzione sulle tematiche sado-masochistiche. Abbiamo visto come gli aspetti sadici diventino centrali nei casi di femminicidio in cui il femminicida non ha rapporti con la vittima e in un altro scritto di qualche settimana fa tentavo di spiegare come il masochismo nelle donne determina a volte una tendenza a sopportare la sofferenza nella speranza che questa tolleranza sia riconosciuta e premiata. E' ovvio che tratti sadici possano essere presenti anche in molte donne e che simmetricamente tratti masochistici possano caratterizzare la struttura di personalità di molti uomini. E' anche vero che spesso tratti sadici e masochistici coesistano e per certi versi possano determinare nella quotidianità comportamenti altruistici o cosiddetti egoistici. Il paradosso è che la polarizzazione e quindi la presenza di un tratto in assenza dell'altro costituisca il più delle volte un condizionamento potente della personalità. In considerazione di questo, possiamo pensare che la maggior diffusione di tratti masochistici tra le donne (soggetti ad una forma quasi biologica di pressione selettiva) rende molto improbabile in esse l'eventualità di una strutturazione esclusiva in senso sadico. Al contrario nei maschi un eccesso di sadismo può non essere “bilanciato” e determinare quindi, in strutture fortemente paranoidi o psicopatiche, assetti di personalità che vedono nel più debole un'occasione di affermare se stessi. Questo ovviamente è letteralmente solo un punto di vista, che non comprende le teorie biologiche con ormoni (testosterone e ossitocina) e neurotrasmettitori (serotonina e dopamina) o le teorie sociologiche che molto possono contribuire alla spiegazione di un fenomeno così terribilmente diffuso in questo nostro difficile tempo.
Mi rendo conto di essermi piuttosto dilungato e penso che questi spunti, sufficienti per una riflessione ed una eventuale discussione, possano aver dato l'impressione di un eccesso di indulgenza nel tentativo di comprendere. Ma ai più accorti non sarà sfuggito che per i casi di femminicida più maligni, la speranza di una riabilitazione ad oggi sia da considerarsi solo un'ipotesi scarsamente attendibile e l'unica possibilità che abbiamo a disposizione è quella di un isolamento a tempo indeterminato.

giovedì 6 giugno 2013

Perché è necessaria una legge a tutela delle donne


E' noto quanto le donne abbiano costituito un problema per la psicoanalisi e soprattutto per la metapsicologia analitica. Il paradosso di Freud è quello di aver costruito una teoria al maschile che ha avuto come oggetto di studio una prevalenza di casi clinici al femminile. In una tale ottica la teoria analitica non ha avuto problemi con l'aggressività e gli aspetti sadici correlati ad essa, mentre Freud fu costretto a molte estensioni e revisioni della sua metapsicologia (fondata sui principi biologici del tempo secondo cui gli organismi cercano di ottenere il massimo piacere e tendono a ridurre al minimo il dispiacere) nel caso dei comportamenti autodistruttivi o masochistici. Non voglio sessualizzare (non erotizzare) masochismo e sadismo attribuendone prevalenze rispettivamente a femmine e maschi, ma nel caso di maltrattamenti fino all'omicidio sadico di donne da parte di maschi, esistono casi in cui tendenze sadiche maschili colludono con aspetti masochistici femminili e l'atto omicida risulta essere l'ultimo di una serie di comportamenti violenti fino ad allora in qualche modo tollerati.Emmanuel Ghent ha sostenuto che il masochismo è una perversione del naturale desiderio di arrendersi, una sfida all'assunto occidentale secondo cui arrendersi è sinonimo di sconfitta. Similmente la prospettiva Junghiana vede il masochismo come il lato oscuro del nostro bisogno archetipico di venerare e adorare.
Il comportamento masochista non è di per sé patologico, anche se alla base di esso c'è sempre un desiderio di autoannullamento, e la moralità comune (cattolica ad esempio) a volte ci impone di soffrire in nome di qualcosa di più grande del nostro benessere immediato. E' questo lo spirito con cui Helene Deutsch osservava che la maternità è intrinsecamente masochistica, anteponendo il benessere di piccoli a quello individuale delle madri. In tal senso il masochismo altruistico è alla base di condotte di vita di tipo eroico, perfino santo come nel caso di Mahatma Ghandi e Madre Teresa.
Il termine masochistico viene inoltre utilizzato a volte per indicare modelli non moralistici di autodistruttività come nelle persone che vanno soggette ad incidenti frequenti o in coloro che si mutilano o si feriscono deliberatamente senza intenzione di suicidarsi. L'atto di tagliarsi diventato così frequente fra gli adolescenti in seria difficoltà, viene spiegato con l'assunto che la vista del proprio sangue fa sentire vivi, reali ed è un buon modo per contrastare l'angoscia di percepirsi inesistenti o privi di sensibilità, o vuoti. I bambini imparano presto che mettersi nei guai è un buon modo per attirare l'attenzione delle figure di accudimento. Il termine masochismo non è quindi l'amore per la sofferenza ma è piuttosto collegato all'idea e alla speranza che tollerare dolore e sofferenza dia in qualche modo diritto ad un bene maggiore. Quindi definire masochistico il comportamento di una donna maltrattata che rimane nonostante tutto a convivere con un uomo violento, non vuol dire che la vittima provi piacere in tali situazioni. L'implicazione è piuttosto che queste donne agiscano in base alla convinzione che la sopportazione della violenza le consentirà di ottene qualcosa che giustifica la sofferenza o le eviterà qualche situazione ancor più dolorosa. Sono molte le donne che ho incontrato nella mia pratica clinica che vivevano in una condizione di questo genere subendo maltrattamenti intollerabili nella convinzione di non avere alternativa e di scegliere solo il male minore. Nei sistemi di classificazione (DSM ad esempio) c'è sempre stata una certa difficoltà nell'includere il disturbo masochistico (autodistruttivo) di personalità proprio in considerazione del rischio di far passare la vittima per colpevole con l'accusa di godere nel provar dolore e di provocare in qualche modo l'abuso, per provare una qualche forma di piacere. In realtà potremmo generalizzare dicendo che in qualsiasi disturbo di personalità c'è qualcosa di masochistico dal momento che se i modi di pensare, sentire, relazionarsi, affrontare i problemi e difendersi sono diventati maladattivi, gli schemi della personalità sono in qualche modo diventati autodistruttivi. Come accade per le persone organizzate in senso depressivo, le dinamiche degli individui masochisti vanno da un estremo più anaclitico (i cui temi centrali riguardano il sé in relazione con l'altro) a uno più introiettivo (dove acquisiscono più importanza le questioni relative alla definizione di sé). Le persone masochiste con intensi bisogni anaclitici sono chiamate talvolta masochisti relazionali: le loro azioni autodistruttive sono il risultato degli sforzi atti a mantenere la relazione ad ogni costo. L'espressione “masochista morale” è invece comunemente applicata ad individui più introiettivi, che hanno organizzato la loro autostima intorno alla capacità di tollerare il dolore e il sacrificio. I modelli caratteriali masochistico e depressivo si sovrappongono in larga misura, specialmente al livello nevrotico-sano tanto da rappresentare uno dei caratteri più comuni (Kernberg, 1984, 1988). Resta comunque importante distinguere le due personalità perché ad un livello di organizzazione borderline o psicotica necessitano di stili terapeutici significativamente diversi. E' probabile trovare individui con strutture masochistiche tra i pazienti cronicamente depressi che rispondono in maniera non ottimale o addirittura non rispondono al trattamento (sia psico che farmaco-terapeutico).
Ritornando alla questione delle donne che subiscono abusi e violenze reiterate fino all'omicidio, diventa chiaro sulla base di quanto esposto che, se strutturate in senso masochistico (come nella maggior parte dei casi), non siano in grado di elaborare strategie alternative a quella di subire e tollerare la sofferenza sia come modalità per definirsi (introiettiva) che per riuscire a mantenere la relazione con l'altro (anaclitica). In tali situazioni quindi la tutela della vita di queste donne (e uomini in casi più rari) può essere esercitata solo all'interno di norme che socialmente impongano agli uomini il rispetto delle donne (un tabù) in nome dei principi etici che regolano i rapporti fra individui all'interno di una società civile. Questo il motivo per cui, al di là delle ideologie politiche, può aver senso varare una legge che regolamenti la materia.   

venerdì 12 aprile 2013

Coppie Omosessuali & Adozione

Dall'inizio degli anni '70 assistiamo alla morte dell'Edipo sotto il pretesto che le nostre società contemporanee non riservano più al padre il suo ruolo tradizionale. Winnicott non temeva di confessare che non constatava alcuna traccia di Edipo in molti dei suoi pazienti. Per quello che mi riguarda non posso distaccarmi dalla base fondamentale dell'Edipo: la doppia differenza dei sessi e delle generazioni che presiede alla nascita del soggetto. Secondo questa base, quali che siano le scelte sessuali di un individuo, resta sempre il fatto che non può ignorare di essere nato da una relazione sessuale tra due genitori di una generazione precedente, separati essi stessi dalla differenza dei sessi e che, per tutta la propria vita, dovrà elaborare questa origine. Per quanto lontano ci spingano le nostre scelte personali nel non riprodurre la situazione (ed è tutto il gioco della sessualità infantile che trova qui il suo posto) resta il fatto che è da li che veniamo. Attualmente, si esercitano ogni sorta di pressioni sociali, con effetto colpevolizzante, perché siano riconosciuti i diritti di minoranze più o meno perseguitate. Se non si può affatto negare la persecuzione, il riconoscimento dei diritti resta problematico. Una delle ultime misure discusse è quella dell'adozione di bambini da parte di coppie omosessuali. Discussioni molto spesso distorte sono oggetto di compiacenza mediatica, nessuno vuole del resto rimanere nel "perché no-ismo". Le indagini sui bambini sono state condotte con molta leggerezza e ad ogni modo non sono probanti. E' ben noto che il bambino ha una capacità di assorbimento delle situazioni inabituali del tutto impressionante. Ma quel che è capace di introiettare senza tanto stupirsi dal punto di vista della sua coscienza, non manca tuttavia di procedere sotterraneamente senza che alcun sintomo emerga alla superficie prima di un lungo tempo (latenza) e lasci supporre l'esistenza di conflitti inconsci in lui. E nessuno ha voglia di perturbare l'equilibrio provvisorio che ha acquisito andando ad eccitare dall'esterno, il suo psichismo con il pretesto di una ricerca. In verità, occorre ammettere la nostra attuale ignoranza davanti alla novità delle situazioni incontrate e soprattutto riconoscere che gli eventuali effetti sul bambino dell'allevamento da parte di una coppia omosessuale si manifesteranno raramente prima dell'adolescenza. Si è già accumulata una certa esperienza nel caso dei bambini di una coppia eterosessuale che si sia separata dopo la rivelazione dell'omosessualità di uno dei due genitori. Certo niente ci permette di dire che una patologia sia in corso ma occorre riconoscere ugualmente la necessità di una sorveglianza psicologica costante e calibrata. Diciamo comunque che non è con una clinica pedopsichiatrica macroscopica che si riuscirà a far avanzare le nostre conoscenze. 
Allo stesso modo è molto improbabile che schieramenti politici spesso ideologici possano dirimere una problematica che rischia di far prevalere presunti diritti di genitorialità degli adulti senza tenere sufficientemente in conto e quindi tutelare il diritto alla salute di un bambino. (Grazie ad André Green)
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