martedì 30 luglio 2013

A Proposito della Fobia del Telegiornale


Sappiamo che le fobie sono paure eccessive associate a comportamenti di evitamento che hanno lo scopo di restringere l'interazione con ciò che è temuto e liberare l'individuo che ne soffre dall'angoscia. Dal punto di vista psicologico spesso le fobie costituiscono un tentativo di modulare angosce connesse a competitività e timori di ritorsioni (la famosa angoscia di castrazione delle tematiche edipiche) e da sforzi per fare fronte alla paura di perdere il controllo (problematiche connesse all'autonomia). I pattern contro-fobici sono quelli in cui un oggetto o una situazione temuta vengono cercati attivamente. Le ripetizioni contro-fobiche, nonostante appaiano di un certo successo, raramente sfociano nella padronanza dell'apprensione fobica, ma possono portare ad una ripetizione compulsiva dell'attività fino a determinare un disagio notevole. Raramente comunque questa modalità di comportamento risulta distonica (soggettivamente indesiderabile) e quindi raramente i pazienti chiedono un trattamento, nonostante questi comportamenti a volte possano risultare francamente rischiosi o autodistruttivi. Un esempio tipico (senza andare a pescare nelle condotte a rischio di acrobati e funamboli) è quello di quelle persone che amano i film horror di cui hanno evidentemente molta paura (altrimenti risulterebbero per lo più noiosi). Proprio per vincere questa paura tendono a sviluppare una predilezione per questo genere di film nonostante gli determinino notevoli problemi sul piano della qualità di un sonno disturbato da spiacevoli incubi.
Spesso le fobie riguardano oggetti che di per sé determinano una sensazione di paura nella maggior parte delle persone (la paura di entrare nella gabbia di un leone per esempio), mentre altre volte l'oggetto diventa fonte di paura in funzione di ciò che l'individuo gli attribuisce: è il caso dei ragni che di per sé sarebbero inoffensivi a meno che non gli vengano attribuite caratteristiche particolarmente pericolose come quelle della famosa vedova nera, attraverso un processo di generalizzazione che porta ad uno stato acuto di angoscia che ha molte caratteristiche dello stato paranoide. Non è questo il luogo in cui possiamo interpretare il simbolismo del ragno che ha radici che affondano nella notte dei tempi (radici – terra – madre terra – madre ….), quindi bando alle associazioni e occupiamoci senza altri preamboli del nuovo genere di film horror che va in onda tipicamente ai pasti, e che noi comunemente chiamiamo telegiornale (TG per gli amici). Un mio collega argentino ultraottantenne psicoanalista e terapeuta di coppia e della famiglia, qualche tempo fa rifletteva su come, dopo oltre 50 anni, la televisione ha fatto ingresso nelle nostre case ed è diventata a tutti gli effetti un membro della famiglia il cui parere è di per sé autorevole. Jannacci negli anni '70 fa aveva intuito questo effetto nel testo di una bellissima canzone: “Quelli che ...” “...l'ha detto il telegiornale...”. Nel tempo quindi la televisione si è seduta alla tavola delle famiglie ed è diventata l'organizzatrice della conversazione “da pasto”. Molti di noi si sono adattati al punto di riuscire a dire (a 40 anni da Vermicino), dopo la notizia di un centinaio di morti in un incidente aereo: “scusa cara … mi passi il pane?...”.Quindi sembra che siamo riusciti a creare due situazioni che hanno il sapore della fiction: quella del telegiornale che possiamo vivere come un qualcosa di non reale e quella della famiglia a tavola con il TG che mangia tranquillamente tra una catastrofe e l'altra in un clima tra il surreale ed il grottesco.
In questo contesto, che ho probabilmente adulterato allo scopo di ottenere una scenografia idonea allo sviluppo di una fobia, si determinano nel tempo quegli adattamenti individuali che ciascuno di noi riesce a mettere in atto sulla base della propria struttura di personalità. Come ho tentato di spiegare nelle righe introduttive, gli adattamenti contro-fobici che sono costituiti dal sottoporsi quotidianamente a questo trattamento con tutti i meccanismi di difesa che portano al distacco ed all'isolamento degli affetti, sono di solito sintonici. Quindi non deve stupire il fatto che siano solo quelle persone particolarmente impressionabili e che sviluppano un disturbo fobico a lamentarsi e a chiedere eventualmente assistenza. La componente fobica può essere determinata attraverso diversi meccanismi tra cui: l'identificazione con l'aggressore e quindi la paura di mettere in atto comportamenti efferati in uno stato di discontrollo, una specie di raptus, l'identificazione con la vittima o più semplicemente (ma non dal punto di vista psicologico) attraverso la paura della paura che è quella sensazione che coglie gli individui di fronte alla possibilità di confrontarsi con qualcosa che non conoscono e che potrebbe determinare uno stato acuto di angoscia. E' il problema di non sapere in anticipo che cosa terribile il telegiornale oggi ci proporrà per pranzo. Sono questi i casi in cui si sviluppa la condotta di evitamento che si può mettere in atto semplicemente spegnendo la televisione, allontanandosi dall'apparecchio interrompendo il pasto o attraverso quel comportamento molto fastidioso (per gli altri) che è lo zapping compulsivo che è fonte di notevole irritazione e furiose discussioni. In alternativa (alla fuga) queste persone possono soffrire di uno stato di angoscia spesso associata a somatizzazioni fino a sfociare in un vero e proprio stato di panico. Nella mia pratica clinica mi ritrovo sempre più spesso ad avere a che fare con persone che non riuscono più a guardare il telegiornale fino a sviluppare una fobia o una vera e propria ossessione. Qualcuno potrebbe chiedersi a che cosa serva rivolgersi ad uno psichiatra quando basta semplicemente premere un tasto del telecomando? Ed è in effetti quello che io chiedo a questi pazienti e come spesso accade in psichiatria, scopriamo che un sintomo non è altro che la punta (evidente) di un iceberg (sommerso nel mare dell'inconscio) e che può essere l'occasione per ciascuno di noi per capire un po' di più se stessi. Agli eroi che sfidano il telegiornale senza battere ciglio e facendo la scarpetta questa possibilità è inesorabilmente preclusa.

mercoledì 24 luglio 2013

Psicopatologia dell'Uomo Politico Italiano


Non c'è grande simpatia per gli uomini politici. La cosa sembrerebbe scontata se non fosse per il fatto che siamo noi stessi a determinarne l'esistenza. Questo un po' dipende da una forma di invidia che ci fa pensare che saremmo migliori se fossimo al loro posto e un po' dal comportamento spesso arrogante che il politico medio assume dopo un po' di tempo che si ritrova a gestire un potere, che di solito non è abituato a sostenere. Il prezzo e quello di una perdita più o meno parziale di quell'equilibrio che aveva fatto intravedere ai potenziali elettori e che di conseguenza ne aveva determinato l'elezione.
Nella mia pratica di psichiatra nel servizio pubblico, mi sono spesso imbattuto in ottimi colleghi che una volta diventati primari si sono rivelati davvero pessimi. Pensavo che il primariato a contratto della durata di cinque anni, avrebbe migliorato la situazione in tal senso, ma purtroppo le conferme dopo i cinque anni sono diventate prassi e il timore della non riconferma ha contribuito ad implementare quei comportamenti nei colleghi primari che, più che volti a migliorare i servizi, risultano prevalentemente finalizzati a mantenere loro stessi nel ruolo.
Sulla base di questa esperienza mutuata nei servizi di psichiatria ho pensato che nei casi in cui si determini una concentrazione di potere, bisognerebbe porsi il problema dei potenziali effetti collaterali che questo potere potrebbe determinare in soggetti incapaci di tollerare carichi di responsabilità che eccedano le loro capacità. Il prezzo che si paga è lo sviluppo di comportamenti condizionati da una psicopatologia devastante per il politico di turno e catastrofica per coloro che dovrebbero essere i beneficiari della loro gestione cioè coloro che lo hanno eletto.
L'essere umano ha molti problemi ad pensarsi come soggetto a tempo determinato. La mitologia greca è ricca di esempi di uomini che nel tentativo di perdere il loro status di mortali hanno pagato un prezzo altissimo (Prometeo rimediò una bella cirrosi). Il mito aveva proprio lo scopo di ricordare agli uomini la propria mortalità e attraverso questa consapevolezza, essere d'aiuto nel mantenere un certo equilibrio. Anzi, a giudicare gli dei immortali dai propri comportamenti privi di principi etici e morali sembra proprio che gli umani, con la loro certezza della fine siano stati i depositari del buon senso, come ci racconta Omero a proposito di Ulisse.
L'uomo politico italiano quindi con la sua possibilità di riconferma a tempo indeterminato, rischia nel tempo di perdere la consapevolezza dei propri limiti e di credersi una sorta di semidio che anela all'immortalità. Sappiamo tutti come il tempo minimo di una legislatura che da diritto ad una pensione a vita sia stato motivo di sopravvivenza di molti governi che non avrebbero avuto alcun senso sul piano concreto. Un esempio lampante è sicuramente quello del governo attuale. Perpetuare la legislatura fino alla scadenza da indubbi vantaggi ai politici eletti e nonostante le critiche che piovono copiose da parte di cittadini delusi, non sembrano interessati alla perdita temporanea di consenso, anche perchè le eventuali prossime elezioni sono lontane e la memoria degli elettori è notoriamente corta. D'altra parte nessuno può negare che è veramente molto difficile trovare in una qualsiasi popolazione (in senso statistico) una maggioranza che abbia tratti masochistici sufficienti da prendere delle decisioni contro il proprio stesso interesse.
Sembra quindi che i nostri politici dal momento in cui vengono eletti per la prima volta, di fronte al terrifico quinquennio in cui potranno esercitare il proprio potere, diventino inevitabilmente vittime di una sindrome: la “sindrome da potere cronico”. Una via paradossale d'uscita da tale situazione sarebbe quella di conferire incarichi a vita in modo tale che i soggetti incaricati non debbano preoccuparsi della propria rielezione. E' quello succede a molti senatori a vita, che in una condizione di tempo indeterminato, il famoso “per sempre”, appaiono diventare particolarmente saggi. Un altro esempio di potere vitalizio è quello del papa, che nel tempo sembra affinare le proprie capacità di gestione senza mostrare segni di cedimento (ad eccezione del caso unico di Benedetto XVI°). Ci sarebbe però da precisare che in questo caso i potenziali eletti vengono da una ristretta cerchia di eleggibili forgiati in una scuola di managment della durata di alcuni decenni (i cardinali).
Il pragmatismo anglosassone ha capito l'esistenza di questo pericolo fin da tempi immemori e ha definito costituzionalmente il tempo in cui un singolo uomo può gestire il potere. Il tempo determinato permette a questi uomini di mostrarsi agli altri come simili, come umani che mangiano, bevono, ridono, stanno con i figli o con i nipoti (Obama ne è un esempio). Questo assetto sembra garantire sia il politico stesso che esce dalla sua esperienza di responsabilità con un bagaglio tale da permettergli un futuro da saggio comunicatore, sia per la democrazia che si può permettere in tal modo pluralità di visioni nel tempo e in alcuni casi una certa alternanza politica.
Il concetto di alternanza politica in Italia è assolutamente sui generis, ed è più mutuato dalla psicologia infantile che dal pragmatismo anglo sassone: “adesso tocca a me giocare perchè fino ad adesso hai giocato tu”. Era questo il senso dell'alternanza grottescamente inaugurato dalla coppia Craxi-De Mita qualche decennio fa, che anziché rimanere nella storia come esempio di imbecillità è diventato il fondamento del nostro sistema politico cosiddetto maggioritario.
Ma ritorniamo alla sindrome da potere cronico. Sembra che questo disturbo, per chi ne soffre, nasca proprio nel momento in cui si raggiunge il cosiddetto successo e comincia la paura di perderlo. La frase celebre di uno dei principali manager politici italiani del dopo guerra “il potere logora chi non ce l'ha” ha proprio questo senso ma sarebbe più chiara se la articolassimo chiarendo la coniugazione dei verbi trasformandola in “il potere logora chi non ce lo avrà” oppure la svelassimo con una riedizione più manifesta: “il potere logora chi teme di perderlo”. In questo caso appare evidente come l'aspetto distruttivo del potere stia nella possibilità della perdita che questo potere include. Freud sosteneva in uno scritto su “coloro che soccombono al successo” che il lavoro psicoanalitico insegna che le forze della coscienza morale che provocano la malattia in conseguenza del successo, anziché come al solito con la frustrazione, sono intimamente connesse con il rapporto precedente con il padre e con la madre, come del resto lo è il nostro senso di colpa in generale. In uno scritto successivo sui “delinquenti per senso di colpa” Freud riscontrava come in alcuni casi il senso di colpa era precedente l'atto illecito e non conseguente ad esso. Bisogna ricordare che il parricidio e l'incesto con la madre sono i due grandi delitti degli uomini, gli unici che nella società primitiva venivano perseguiti ed esecrati per sé stessi. Dobbiamo inoltre ricordare come l'umanità abbia acquisito in relazione al complesso edipico quella coscienza morale che ora è considerata come una forza spirituale innata.
Ma come possiamo ipotizzare che il senso di colpa possa giocare un ruolo importante nella delinquenza umana? Freud sosteneva che è facile osservare come nei bambini che diventano “cattivi” per sollecitare una punizione, dopo essere castigati essi si tranquillizzano e si pacificano. Spesso l'indagine analitica porta sulle tracce del senso di colpa che li aveva appunto indotti a procurarsi il castigo. Per gli adulti si devono eccettuare quei delinquenti che commettono atti criminosi senza alcun senso di colpa cioè quei casi di psicopatia sostenuta dal narcisismo maligno di Kernberg. Ma per ciò che riguarda la maggior parte dei delinquenti questo punto di vista potrebbe chiarire alcuni lati oscuri della loro psicologia e fornire un nuovo fondamento psicologico alla pena.
A questo punto qualcuno (io stesso per esempio) potrei sospettare una certa manipolazione delle parole di Freud contestualizzandole nel caso della sindrome da potere cronico. Ma se noi sostituissimo la definizione di atto delinquenziale che Freud usa in tale scritto con la parola “misfatto” che in precedenza aveva usato per definire tali comportamenti riferiti ai bambini, forse ci farà sembrare la teoria del senso di colpa applicata ai misfatti dei politici dopo la loro elezione meno speculativa. Freud inoltre ricordava come la preesistenza del senso di colpa ed il ricorso, per una sua razionalizzazione, al misfatto era già nota anche a Nietzsche e traspariva nelle parole di Zarathustra “Del pallido delinquente”.
Ritornando ai certi nostri amati uomini politici potremmo ipotizzare che il senso di colpa quindi preceda i loro misfatti che una volta realizzati consentiranno loro la salvifica redenzione attraverso l'espiazione della pena. Sono questi i casi di politici logorati dalla fobia di perdere il potere. Non so però quanto questa interpretazione possa darci elementi sufficienti per comprendere invece quei casi di uomini politici che non commettono atti sufficienti per una punizione in senso legale, casi in cui di conseguenza mancando la pena, il senso di colpa non potrà essere espiato. Chiunque potrebbe dire che sul piano psicopatologico questi sembrerebbero i casi di minor gravità. Ad una riflessione più approfondita però potremmo anche sospettare che nei casi ipotizzati come meno gravi, il senso di colpa diventi per certi versi meno presente e quindi potremmo pensare ad una variante, sebbene più presentabile, più subdola, più incline a quelle logiche che sfuggono al senso di colpa e lo sostituiscono più o meno marcatamente con il senso di vergogna. Siamo in un ambito meno esplicito in cui le cose nascoste sono prevalenti rispetto a quelle manifeste, l'implicito domina l'esplicito. Ce ne accorgiamo perchè le parole nella bocca di questi soggetti diventano allusive, a volte francamente elusive rispetto al significato che comunemente può essere ad esse attribuito. L'eloquio che ne deriva è quel politichese di cui spesso i giornalisti abusano dimenticandosi di essere comuni mortali e di partecipare alla mensa degli dei solo come spettatori non paganti. E quando le parole perdono il loro significato e ne acquistano uno proprio sulla base del contesto in cui vengono pronunciate, siamo in uno stile di comunicazione che i sistemici definivano a doppio legame, il cui effetto è quello di determinare dubbi e incertezze in chi ascolta. Non siamo nelle braccia di una madre buona che ci permetterà di affrancarci dai nostri misfatti con una pena equa, ma nelle mani fredde di una madre schizofrenogena che ci porterà giorno dopo giorno e in maniera doppiamente inconsapevole alla più profonda follia. Forse è per questo che molti politici non suscitano simpatia ...

venerdì 12 luglio 2013

Ritratto del femminicida


Premetto che le generalizzazioni su cui mi baserò per tentare di fare un quadro della struttura di personalità di un femminicida, non consentono l'individuazione di singoli casi, che in virtù delle peculiarità di ciascun essere umano, sfuggono inevitabilmente a qualsiasi tentativo di inquadramento in un cluster definito. L'applicazione di principi generali ai singoli casi ha un costo di falsi positivi e falsi negativi che vanificherebbe di fatto lo sforzo in sé.
Questa riflessione ha il senso di fornire delle considerazioni di massima che possano dare una spiegazione sul come e sulla base di quali presupposti un uomo possa arrivare ad uccidere una donna con cui abbia, o abbia avuto in passato, una relazione o meno.
In 25 anni di lavoro come psichiatra, ho incontrato molte donne spaventate da uomini più o meno oggettivamente o solo potenzialmente violenti, mentre non ricordo di aver mai avuto a che fare con un femminicida o un uomo con intenzioni seriamente tali, non avendo comunque un'esperienza di psichiatria carceraria. Potrei supporre che sia molto raro (non per presunzione, ma sulla base delle diverse migliaia di pazienti con cui ho avuto una relazione in questi 25 anni) che potenziali femminicidi consultino uno psichiatra o uno psicoterapeuta per ottenere un qualche genere di aiuto. Da ciò possiamo presupporre che queste persone in generale abbiamo poca propensione a percepire l'angoscia anche se ci capita di vederli piuttosto contriti nelle immagini televisive dell'arresto, forse anche per un sentimento di vergogna per essere stati scoperti e catturati. Alcuni sapranno come la differenza fra il senso di colpa ed il senso di vergogna stia genericamente negli aspetti relazionali, dal momento che la vergogna si riferisce alla perdita dell'ideale di sé, mentre la colpa comprende la perdita dell'altro. Ovviamente vergogna e colpa non si presentano in una logica antitetica ma piuttosto in un continuum in cui le polarizzazioni sono solo teoriche.
Un'altra considerazione è che spesso il femminicida, a parte episodi di violenza nei confronti della vittima (quando c'è relazione), proprio in virtù della grande attenzione che dà agli aspetti idealizzati di sé, risulta avere una immagine pubblica tutt'altro che sospetta tanto che nelle testimonianze di vicini di casa e conoscenti (amici in senso stretto di solito non ne hanno) risultano persone gentili e nel complesso particolarmente tranquille. Siamo quindi di fronte a personalità dissociate in cui il falso sé funzionante, potrebbe non reggere ai sentimenti di angoscia nel momento in cui le vittime di questi uomini tentano di sottrarsi al loro dominio, minando così pericolosamente la loro cosiddetta autostima. Anche l'autostima di cui tanto facilmente quanto a sproposito si parla nei saloni di bellezza (si chiama marketing) non costituisce concetto di facile comprensibilità. Potremmo definirla come la capacità nel tempo di mantenere un'immagine interna coerente ed integrata di sé. La perdita dell'autostima porta in genere ad una sensazione di angoscia di frammentazione, una sorta di derealizzazione (perdita di contatto con la propria realtà) che, se insostenibile, diventa il presupposto per l'eliminazione della parte cattiva dell'oggetto frustrante e mancante fonte di tanta sofferenza, nel tentativo di preservarne il buono. In tali persone l'altro è concepito solo come funzionale al mantenimento della propria integrità e la sensazione di disintegrazione viene proiettata all'esterno sotto forma di annientamento dell'oggetto cattivo. Quando parliamo di proiezione in una parte della psichiatria si allude implicitamente alla paranoia e noi sappiamo come la gelosia non sia altro che una forma di paranoia.
Il concetto chiave, che non ho ancora nominato, che ci permette di avere una visione d'insieme della struttura di personalità di un potenziale femminicida e che ci dà una possibile spiegazione dei diversi casi di femminicidio è quello di narcisismo. Sappiamo quanto il narcisismo sia importante per strutturare il nostro carattere, quanto sia utile nelle logiche di autoaffermazione e fondamentale nel mantenimento della nostra famigerata autostima (e quindi nell'economia dei saloni di bellezza). Dal punto di vista evolutivo il narcisismo è il punto di partenza che ci permette di prendere coscienza di noi stessi nella fusione con l'altro che non viene percepito come separato. Purtroppo nel tempo qualsiasi bambino (molto piccolo) sperimenta che l'oggetto d'amore (di solito la madre) è anche frustrante e che a volte non c'è, gettandolo nella disperazione più totale e ad una protesta non sempre ascoltata. Nel tempo, se le cose non si complicano, e se la frustrazione come diceva un mio collega qualche decennio fa è ottimale, riusciamo a tollerare un certo grado di separazione e questa separazione ci permette di sperimentare progressivamente l'altro come possibile oggetto con cui avere una relazione. Nel tempo acquistiamo sempre più la capacità di separarci in virtù della possibilità di mantenere un'immagine interna dell'oggetto anche in sua assenza. In tale contesto il termine oggetto (altro) è utilizzato come alternativa al soggetto (io).
Può accadere in alcuni casi che questo processo di individuazione e di formazione delle logiche relazionali si arresti precocemente, determinando una incapacità di tollerare la frustrazione se non al prezzo di cancellare l'oggetto esterno e di tornare ad uno stato indefinito in cui l'altro esiste solo in funzione delle proprie necessità e diventa quindi nient'altro che una estensione di sé. A questo punto gli altri non hanno più vita propria ma sono solo oggetti su cui proiettare parti non integrate di sé. Se la partner si sottrae a questa proiezione la conseguenza inevitabile è la perdita della propria coesione interna con uno stato conseguente di angoscia cosiddetta di frammentazione. Per uscire da questo stato più o meno celermente una possibilità è la cancellazione (a livello di pensiero) o l'annientamento (a livello fisico) dell'altro. Queste considerazioni possono darci un'idea di cosa possa accadere ad un uomo che uccide dopo anni di violenze una partner che tenti di sottrarsi alla relazione. La cosa che mi colpisce è come le donne riescano a cogliere questo pericolo in maniera lucida tanto che percepiscono spesso chiaramente come la separazione possa costituire il momento di rottura di un equilibrio violento e di come si sentano in tali frangenti realmente a rischio. Certo è vero che l'omicidio accade in una minoranza dei casi e che spesso, anche per motivi fortuiti (l'uomo trova un'altra “vittima”) le cose si risolvano senza fatti tragici. Resta l'impressione che quando una donna avverte questa sensazione di pericolo imminente ci sia sempre un fondamento che va oltre le logiche razionali. Questo spiega anche il perchè molti femminicidi non vengano evitati nonostante le continue richieste d'aiuto delle vittime: molte volte accade che queste donne portino solo la paura, condizionate anche dalle manipolazioni del partner, e non le prove inoppugnabili di un reale pericolo. Purtroppo quando queste prove esistono può essere troppo tardi.
Esistono comunque altri casi di femminicidio in cui non ci sono rapporti tra la vittima e l'assassino e spesso in tali casi si riscontra una certa tendenza alla serialità. Anche in questo caso e forse in maniera eclatante, il narcisismo costituisce la chiave di lettura che ci permette di capire come possano funzionare (si fa per dire) le cose. Il narcisismo in questo caso assume una forma particolare (maligna diceva un mio collega) e si associa a valenze sadiche e psicopatiche in una miscela terribile di cui violenza, sofferenza, spietatezza sono le componenti fondamentali. Abbiamo a che fare con individui per cui l'altro non è oggetto altro da sé ma semplicemente una cosa che acquista vita solo nella sofferenza in una logica proiettiva. A proposito, nella proiezione, proprio come accade al cinema, dove uno schermo acquista una vita che altrimenti non avrebbe, succede che pensieri propri, sia negativi (su basi fobiche), che positivi (in base alla speranza), vengano attribuiti ad altri senza averne consapevolezza. Questo meccanismo è fonte frequentemente di notevoli fraintendimenti.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto come mai il femminicida sia così frequentemente maschio, dati i rari casi di maschicidio. Mi rendo conto che la domanda potrebbe suonare come bizzarra ma non mi sembra del tutto scontata e purtroppo neppure semplice. Cercherò comunque di rendere le cose comprensibili al prezzo di una certa banalizzazione focalizzando l'attenzione sulle tematiche sado-masochistiche. Abbiamo visto come gli aspetti sadici diventino centrali nei casi di femminicidio in cui il femminicida non ha rapporti con la vittima e in un altro scritto di qualche settimana fa tentavo di spiegare come il masochismo nelle donne determina a volte una tendenza a sopportare la sofferenza nella speranza che questa tolleranza sia riconosciuta e premiata. E' ovvio che tratti sadici possano essere presenti anche in molte donne e che simmetricamente tratti masochistici possano caratterizzare la struttura di personalità di molti uomini. E' anche vero che spesso tratti sadici e masochistici coesistano e per certi versi possano determinare nella quotidianità comportamenti altruistici o cosiddetti egoistici. Il paradosso è che la polarizzazione e quindi la presenza di un tratto in assenza dell'altro costituisca il più delle volte un condizionamento potente della personalità. In considerazione di questo, possiamo pensare che la maggior diffusione di tratti masochistici tra le donne (soggetti ad una forma quasi biologica di pressione selettiva) rende molto improbabile in esse l'eventualità di una strutturazione esclusiva in senso sadico. Al contrario nei maschi un eccesso di sadismo può non essere “bilanciato” e determinare quindi, in strutture fortemente paranoidi o psicopatiche, assetti di personalità che vedono nel più debole un'occasione di affermare se stessi. Questo ovviamente è letteralmente solo un punto di vista, che non comprende le teorie biologiche con ormoni (testosterone e ossitocina) e neurotrasmettitori (serotonina e dopamina) o le teorie sociologiche che molto possono contribuire alla spiegazione di un fenomeno così terribilmente diffuso in questo nostro difficile tempo.
Mi rendo conto di essermi piuttosto dilungato e penso che questi spunti, sufficienti per una riflessione ed una eventuale discussione, possano aver dato l'impressione di un eccesso di indulgenza nel tentativo di comprendere. Ma ai più accorti non sarà sfuggito che per i casi di femminicida più maligni, la speranza di una riabilitazione ad oggi sia da considerarsi solo un'ipotesi scarsamente attendibile e l'unica possibilità che abbiamo a disposizione è quella di un isolamento a tempo indeterminato.

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