giovedì 31 ottobre 2013

La Consulenza Analitica Aziendale


Premessa

Per molti anni ho pensato che un'approccio psicologico complesso, analitico, non basato su semplificazioni cognitiviste o comportamentiste (una ricetta per ogni problema), potesse essere di aiuto a quegli imprenditori, a quei manager, a quelle aziende che ad un certo punto della loro storia si fossero venuti a trovare in situazioni “difficili”, in cui il buon senso sembra insufficiente e le logiche razionali appaiono incapaci di fornire una chiave di lettura utile. Per molti anni ho avuto notevoli resistenze ad approcciare un ambito così apparentemente lontano da quel mondo fatto di irrazionalità e di non senso logico a cui è avvezzo chi, come me, si occupa a tempo pieno di psichiatria. Le mie resistenze sono state anche probabilmente condizionate dallo strapotere che l'approccio cognitivista ha avuto, dagli anni novanta in poi, in tutte le scuole di management del mondo occidentale, raggiungendo il massimo sviluppo nelle tecniche cosiddette di coaching. Parole d'ordine come lavoro in team, fare squadra, sviluppare comportamenti finalizzati al successo ed al raggiungimento (secondo un modello sportivo dallo scarso spirito olimpico) la condizione di leader di mercato, hanno costituito il prodotto che una psicologia da mercanti ha venduto al mondo aziendale, una mera riproposizione del modello del buon padre di famiglia (a cui i vari coach di successo in ambito sportivo si sono ispirati). Queste semplificazioni banalizzanti sono tutte fondate su un principio ovvio della vendita: dai alle persone ciò che le persone desiderano e cioè, assecondando una sorta di ideale collettivo, l'idea del successo. Una impostazione di questo genere è sembrata una promozione del prodotto perfetta a molti manager di marketing, e sarebbe probabilmente rimasta indiscutibile, se non fosse per un piccolo effetto collaterale che questo approccio finisce nel tempo col determinare, che potremmo definire (per essere in linea con le logiche marketing oriented) con una specie di slogan: Assenza di Spirito Critico.

Un Nuovo Approccio

Nel gergo psicoanalitico c'è una parola che è anche ampiamente utilizzata in psichiatria: Insight il cui significato suona più o meno come Consapevolezza.
Molte persone hanno l'impressione di avere una notevole consapevolezza di sé, tanto che molte volte mi son sentito dire dai miei pazienti che le cose da sapere le sapevano tutte e che nonostante questo le cose non andavano bene. E' molto difficile in questi casi far passare l'idea che a volte, quando i conti non tornano, bisogna andare a cercare tra ciò che non si sa, per avere una nuova consapevolezza, un obiettivo altamente condivisibile come direbbero i venditori di psicologia aziendale modernisti. Ma per ottenere questo, bisogna sapersi mettere in discussione, una frase spesso inflazionata ed utilizzata in un atteggiamento tanto in voga oggi che potremmo definire come falsa modestia, una specie di captatio benevoletiae che ha spesso alla base una supponente condiscendenza, ma che ha notevole significato da un punto di vista psichico. Ciò che hanno fatto fino ad oggi le varie tecniche psicologiche di management, non è stato altro che alimentare all'interno delle aziende, o nei singoli manager, la percezione narcisistica di sé cioè quella percezione che più corrisponde a quanto abbiamo idealizzato (sia a livello individuale che come gruppo organizzato), in modo onnipotente e megalomanico. E' la stessa cosa che fa un bambino (di due o tre anni) che inconsapevole dei propri limiti si crede capace (suscitando l'amorevole simpatia degli adulti) di qualsiasi cosa, quel qualsiasi cosa che i genitori idealizzati, come (inevitabilmente) onnipotenti, sanno fare. In questa ottica sono andate tutte le logiche delle certificazioni di qualità nel tempo, che partendo da obiettivi come la qualità totale a zero difetti (difficile pensare ad un progetto più onnipotente di così) è approdata alla necessità di una verifica costante dei processi, che migliorabili all'infinito, vanno raffinati ogni sei mesi (o meno), creando soltanto nuovi costi e nuovi posti di lavoro negli enti di certificazione, e la sensazione costante paradossale di essere perennemente carenti . Purtroppo ben presto noi tutti, fin da bambini, ci rendiamo conto che l'ideale di sé (o in maniera più comprensibile un sé ideale), altamente desiderabile, è difficilmente raggiungibile e questo provoca molta vergogna. E' quello che si prova nelle aziende nel momento in cui non si raggiunge un obiettivo, un budget, o si incappa in una chiusura di bilancio senza gli incrementi di fatturato o di utile previsti. Con il diventare adulti (in maniera sana) questa immagine ideale viene trasportata dall'esterno (i genitori o le altre figure adulte di riferimento) all'interno (del famigerato Io) e assume quelle caratteristiche etiche e morali alla base dei nostri così spiacevoli (ma anche sani) sensi di colpa. In ultima analisi potremmo semplificare affermando che il senso di colpa nasce proprio dalla nostra incapacità di essere come dovremmo, ultimo baluardo di quella idealizzazione che sembra quasi immortale e che spesso è comunque utile alle aziende nel fornire la spinta verso il progresso. Per sopravvivere a questo, e per raggiungere nel tempo gli obiettivi, non ci resta che accettare le frustrazioni dei nostri limiti e convivere con essi in modo il più possibile consapevole.
La ricetta aziendale per i momenti difficili, in una tale ottica, non è più quindi quella di individuare scostamenti da modelli idealizzati o da previsioni di bilancio a volte irrealizzabili, causa frequente di errori fatali (frequenti nelle strategie di crescita ad esempio) e correggerli, ma piuttosto quella di aumentare la consapevolezza di sé e dei propri mezzi e, all'interno di questi limiti, valutare la possibilità di una convivenza, talora una sopravvivenza, che permetta nel tempo quei cambiamenti alla base di uno sviluppo futuro. C'è la rinuncia quindi alla logica (mutuata dalla politica economica così condizionata dall'economia finanziaria) del tutto e subito, in cui la frustrazione è intollerabile, in un epoca in cui la velocità sembra la password per il successo, per sostituirla con una nuova logica legata ad altre parole: pazienza, perseveranza, capacità di analisi, parole che sottendono un concetto del tempo diverso dall'hic et nunc, ma che permette di considerare il passato, la storia, come un bagaglio prezioso che permetterà al presente di essere al servizio del futuro. Non bisogna teorizzare una fabbrica lenta come predica qualcuno o lo slow business o lo slow food per riappropriarci di una percezione del tempo al di fuori del quale l'esistenza non avrebbe e non ha senso.

Concludendo

In considerazione di questa epoca di crisi che altro non è che un cambio delle regole di un sistema arrivato ormai al capolinea, in cui ci ostiniamo (narcisisticamente) a definire paesi emergenti o in via di sviluppo quelle realtà economiche che costituiscono di fatto un nuovo modello, in cui la gestione e l'accessibilità alle informazioni non è più possibile se non in un'ottica di condivisione e trasparenza, ho avuto l'impressione che l'offerta di una consultazione più votata alla consapevolezza che al successo, più alla percezione del contenuto che al perfezionamento del contenitore, più legata al tempo vissuto che al tempo perduto, potesse fornire una chiave di lettura utile per interpretare situazioni difficili in cui il buon senso di cui è dotato ogni imprenditore, ogni manager non basta e le eventuali soluzioni passano attraverso logiche affettive, l'individuazione delle false credenze, dei vissuti di perdita la cui interpretazione è fondamentale per per ottenere quell'insight che in psichiatria distingue tra “normalità” e “follia”. Riappropriandoci del senso del tempo, potremmo dare di nuovo senso ad un concetto antico secondo cui a volte si può perdere qualche battaglia e vincere una guerra.  
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