Premessa
Per molti anni ho pensato
che un'approccio psicologico complesso, analitico, non basato su
semplificazioni cognitiviste o comportamentiste (una ricetta per ogni
problema), potesse essere di aiuto a quegli imprenditori, a quei
manager, a quelle aziende che ad un certo punto della loro storia si
fossero venuti a trovare in situazioni “difficili”, in cui il
buon senso sembra insufficiente e le logiche razionali appaiono
incapaci di fornire una chiave di lettura utile. Per molti anni ho
avuto notevoli resistenze ad approcciare un ambito così
apparentemente lontano da quel mondo fatto di irrazionalità e di non
senso logico a cui è avvezzo chi, come me, si occupa a tempo pieno
di psichiatria. Le mie resistenze sono state anche probabilmente
condizionate dallo strapotere che l'approccio cognitivista ha avuto,
dagli anni novanta in poi, in tutte le scuole di management del mondo
occidentale, raggiungendo il massimo sviluppo nelle tecniche
cosiddette di coaching. Parole d'ordine come lavoro in team,
fare squadra, sviluppare comportamenti finalizzati al
successo ed al raggiungimento (secondo un modello sportivo dallo
scarso spirito olimpico) la condizione di leader di mercato,
hanno costituito il prodotto che una psicologia da mercanti ha
venduto al mondo aziendale, una mera riproposizione del modello
del buon padre di famiglia (a cui i vari coach di successo in
ambito sportivo si sono ispirati). Queste semplificazioni
banalizzanti sono tutte fondate su un principio ovvio della vendita:
dai alle persone ciò che le persone desiderano e cioè, assecondando
una sorta di ideale collettivo, l'idea del successo.
Una impostazione di questo genere è sembrata una promozione del
prodotto perfetta a molti manager di marketing, e sarebbe
probabilmente rimasta indiscutibile, se non fosse per un piccolo
effetto collaterale che questo approccio finisce nel tempo col
determinare, che potremmo definire (per essere in linea con le
logiche marketing oriented) con una specie di slogan: Assenza di
Spirito Critico.
Un Nuovo Approccio
Nel gergo psicoanalitico
c'è una parola che è anche ampiamente utilizzata in psichiatria:
Insight il cui significato suona più o meno come
Consapevolezza.
Molte persone hanno
l'impressione di avere una notevole consapevolezza di sé, tanto che
molte volte mi son sentito dire dai miei pazienti che le cose da
sapere le sapevano tutte e che nonostante questo le cose non andavano
bene. E' molto difficile in questi casi far passare l'idea che a
volte, quando i conti non tornano, bisogna andare a cercare tra
ciò che non si sa, per avere una nuova consapevolezza, un
obiettivo altamente condivisibile come direbbero i venditori di
psicologia aziendale modernisti. Ma per ottenere questo, bisogna
sapersi mettere in discussione, una frase spesso inflazionata
ed utilizzata in un atteggiamento tanto in voga oggi che potremmo
definire come falsa modestia, una specie di captatio benevoletiae
che ha spesso alla base una supponente condiscendenza, ma che ha
notevole significato da un punto di vista psichico. Ciò che hanno
fatto fino ad oggi le varie tecniche psicologiche di management, non
è stato altro che alimentare all'interno delle aziende, o nei
singoli manager, la percezione narcisistica di sé cioè quella
percezione che più corrisponde a quanto abbiamo idealizzato (sia a
livello individuale che come gruppo organizzato), in modo onnipotente
e megalomanico. E' la stessa cosa che fa un bambino (di due o tre
anni) che inconsapevole dei propri limiti si crede capace (suscitando
l'amorevole simpatia degli adulti) di qualsiasi cosa, quel qualsiasi
cosa che i genitori idealizzati, come (inevitabilmente) onnipotenti,
sanno fare. In questa ottica sono andate tutte le logiche delle
certificazioni di qualità nel tempo, che partendo da obiettivi come
la qualità totale a zero difetti (difficile
pensare ad un progetto più onnipotente di così) è
approdata alla necessità di una verifica costante dei processi, che
migliorabili all'infinito, vanno raffinati ogni sei mesi (o meno),
creando soltanto nuovi costi e nuovi posti di lavoro negli enti di
certificazione, e la sensazione costante paradossale di essere
perennemente carenti . Purtroppo ben presto noi tutti, fin da
bambini, ci rendiamo conto che l'ideale di sé (o
in maniera più comprensibile un sé ideale), altamente
desiderabile, è difficilmente raggiungibile e questo provoca molta
vergogna. E' quello che si prova nelle aziende nel momento in cui non
si raggiunge un obiettivo, un budget, o si incappa in una chiusura di
bilancio senza gli incrementi di fatturato o di utile previsti. Con
il diventare adulti (in maniera sana) questa immagine ideale viene
trasportata dall'esterno (i genitori o le altre figure adulte di
riferimento) all'interno (del famigerato Io) e assume quelle
caratteristiche etiche e morali alla base dei nostri così spiacevoli
(ma anche sani) sensi di colpa. In ultima analisi potremmo
semplificare affermando che il senso di colpa nasce proprio dalla
nostra incapacità di essere come dovremmo, ultimo baluardo di quella
idealizzazione che sembra quasi immortale e che spesso è comunque
utile alle aziende nel fornire la spinta verso il progresso. Per
sopravvivere a questo, e per raggiungere nel tempo gli obiettivi, non
ci resta che accettare le frustrazioni dei nostri limiti e convivere
con essi in modo il più possibile consapevole.
La ricetta
aziendale per i momenti difficili, in una tale ottica, non è
più quindi quella di individuare scostamenti da modelli idealizzati
o da previsioni di bilancio a volte irrealizzabili, causa frequente
di errori fatali (frequenti nelle strategie di crescita ad esempio) e
correggerli, ma piuttosto quella di aumentare la consapevolezza di sé
e dei propri mezzi e, all'interno di questi limiti, valutare la
possibilità di una convivenza, talora una sopravvivenza, che
permetta nel tempo quei cambiamenti alla base di uno sviluppo futuro.
C'è la rinuncia quindi alla logica (mutuata dalla politica economica
così condizionata dall'economia finanziaria) del tutto e subito, in
cui la frustrazione è intollerabile, in un epoca in cui la velocità
sembra la password per il successo, per sostituirla con una nuova
logica legata ad altre parole: pazienza, perseveranza, capacità
di analisi, parole che sottendono un concetto del tempo diverso
dall'hic et nunc, ma che permette di considerare il passato, la
storia, come un bagaglio prezioso che permetterà al presente di
essere al servizio del futuro. Non bisogna teorizzare una fabbrica
lenta come predica qualcuno o lo slow business o lo slow food per
riappropriarci di una percezione del tempo al di fuori del quale
l'esistenza non avrebbe e non ha senso.
Concludendo
In considerazione di
questa epoca di crisi che altro non è che un cambio delle regole di
un sistema arrivato ormai al capolinea, in cui ci ostiniamo
(narcisisticamente) a definire paesi emergenti o in via di sviluppo
quelle realtà economiche che costituiscono di fatto un nuovo
modello, in cui la gestione e l'accessibilità alle informazioni non
è più possibile se non in un'ottica di condivisione e trasparenza,
ho avuto l'impressione che l'offerta di una consultazione più votata
alla consapevolezza che al successo, più alla percezione del
contenuto che al perfezionamento del contenitore, più legata al
tempo vissuto che al tempo perduto, potesse fornire una chiave di
lettura utile per interpretare situazioni difficili in cui il buon
senso di cui è dotato ogni imprenditore, ogni manager non basta e le
eventuali soluzioni passano attraverso logiche affettive,
l'individuazione delle false credenze, dei vissuti di perdita la cui
interpretazione è fondamentale per per ottenere quell'insight che in
psichiatria distingue tra “normalità” e “follia”.
Riappropriandoci del senso del tempo, potremmo dare di nuovo senso ad
un concetto antico secondo cui a volte si può perdere qualche
battaglia e vincere una guerra.