venerdì 4 luglio 2014

Gli Errori della Psichiatria


Quando si ha a che fare con la complessità della psichiatria accade spesso che si presupponga come chiave di lettura uno specifico approccio che tende ad escludere punti di vista alternativi. E' quello che accade nella logica antitetica tra ottica psicologica e biologica. Questi presupposti per certi versi pregiudiziali, sono spesso causa di errori di interpretazione perché potenzialmente condizionati dagli errori di ciascun approccio specifico.

Gli Errori dell'Approccio Psicologico alla Psichiatria

Alcuni critici della psichiatria, specialmente tra gli psicologi e i sociologi, dall'alto di una posizione erudita, mettono sotto accusa il riduzionismo della nosografia psichiatrica, che con un termine unico (come ad esempio: depressione) raggruppa un insieme di persone ignorandone le diversità e le molteplici cause che nella vita ne producono i sintomi. Per quanto tempo ancora saremo costretti a sentire il ritornello secondo cui la psichiatria ha medicalizzato la quotidianità? Certo non possiamo sostenere che questa critica sia falsa, anzi potremmo anche dire che è vera per più della metà. E' probabile che in psichiatria ci sia una tendenza a iper patologizzare e questo fin da prima dell'avvento di quello che oggi chiamiamo riduzionismo biologico. Per un secolo, gli psicoanalisti hanno per certi versi iper patologizzato sebbene essi non potessero essere affatto accusati di riduzionismo biologico. Forse la tendenza a catalogare è alla base di una pletora di categorie diagnostiche, che nel tentativo disperato di cogliere le infinite sfumature della clinica, spaccano per così dire il capello in quattro dando così la sensazione di avere un' etichetta per chiunque.
Di fronte a queste critiche dobbiamo pensare che c'è un profondo errore nella psicologia e nella psichiatria e che ha origini più lontane nel tempo rispetto all'era biologica. Non c'è peggior rischio nell'approccio psicologico alla psichiatria della fallacia di una certa tendenza a “giustificare” un sintomo o una malattia con razionalizzazioni riguardanti le presunte cause alla base di esse.
Quante volte un paziente ci ha detto, quando gli chiediamo una spiegazione dei sintomi depressivi o maniacali, “ero depresso a causa di x, y etc..”, “divento maniacale, quando sono veramente interessato alle cose”? Quante volte abbiamo visto clinici della salute mentale sottovalutare disturbi dell'umore, a causa delle giustificazioni derivanti da molteplici stressors psicosociali? Quante volte ancora saremo costretti ad assistere al teatrino messo in piedi da presunti esperti della salute mentale che giustificano un suicidio con tasse da pagare o multe ingiuste e non preventivabili?
Questi giudizi psicologici o meglio para-psicologici, si basano esclusivamente sul senso comune. Ma se il senso comune fosse sufficiente a spiegare le cose, i nostri pazienti non avrebbero bisogno di psichiatri e psicologi ma potrebbero essere curati da parenti e amici se non da se stessi. Molti in realtà pensano questo e purtroppo questa mia affermazione è piuttosto lontana dall'essere una battuta di spirito. Se i pazienti attraversano la soglia dello studio di un clinico, vuol dire che il senso comune ha fallito e che di per sé non è sufficiente. Quindi sarà necessario un senso scientifico, che è piuttosto diverso dal comune buon senso.

Gli Eventi della Vita causano veramente una depressione?

Una gran quantità di letteratura scientifica negli ultimi decenni si è occupata della relazione tra i cosiddetti “life events” e la depressione nel tentativo di dimostrare un nesso tra episodio depressivo ed evento stressante. Ma quali sono questi eventi della vita che possono determinare un disturbo dell'umore? Problemi con il coniuge, con il capo al lavoro, o con un figlio, problemi finanziari, perdita della casa, malattie varie sono spesso chiamati in causa. Ci si domanderà quindi chi nel corso della propria vita eviterà o può presumere di poter evitare problemi di questo genere? La domanda quindi potrebbe diventare non tanto perché questi eventi causino una depressione, quanto piuttosto come mai la maggior parte delle persone che vanno incontro a tali problemi non sviluppino un disturbo depressivo. Ovviamente nel mondo della psichiatria c'è anche chi si è occupato di questo. Lo spunto per una possibile spiegazione del motivo per cui tentare di creare dei nessi di causa effetto tra eventi stressanti e psichiatria può avere un senso, viene da alcuni studi condotti negli anni '70 e '80 su pazienti con un'epilessia grave resistente alla terapia che venivano sottoposti ad un intervento di resezione del corpo calloso, nel tentativo di isolare i due emisferi cerebrali e prevenire le convulsioni generalizzate. Questi interventi diedero il via ad alcune interessanti ricerche di tipo neuropsicologico. Mostrando un disegno che raffigura una donna che parla al telefono, ponendolo nel campo visivo sinistro di un paziente in cui fosse stato disconnesso l'emisfero destro, e quindi impedisse il passaggio dell'informazione all'emisfero sinistro in cui si trova il centro del linguaggio soprattutto nei destrimani, capitava che alcune persone descrivessero comunque l'azione raffigurata nel disegno ma sbagliando, descrivendo l'azione come ad esempio quella di un bambino che gioca a palla. Ma se veniva chiesto allo stesso paziente di mostrare cosa facesse il protagonista della vignetta, alcuni prendevano il telefono con la mano sinistra (riproducendo quindi l'azione corretta). Quindi questo dimostrava che pur avendo l'informazione, essi non erano in grado di esprimerla verbalmente. Ma ancora più interessante era il fatto cha anziché ammettere la propria incapacità di espressione, essi comunque facevano qualcosa, una specie di confabulazione. Questo quindi è quello che il nostro cervello fa, cioè razionalizza. Noi cerchiamo una ragione per ogni cosa e gli psichiatri lo sanno bene perché quando domandano ad un paziente il motivo per cui ha l'ansia ad esempio, il paziente di fatto non lo sa, ma non per questo rinuncia a trovare una spiegazione ragionevole. Ma molte volte le spiegazioni razionalizzate, basate sul senso comune sono false, soprattutto nei casi in cui sono in ballo cause di tipo biologico. Quindi ritornando al ruolo dei life events, possiamo ipotizzare che essi possono influenzare il momento dell'insorgenza dell'episodio depressivo, ma non ne spiegano l'eziologia. Alla base di episodi depressivi, soprattutto se ricorrenti, non può che esserci una causa interna probabilmente biologica che in qualche modo può spiegare come mai il 10% delle persone diventino depresse di fronte ad un evento che non causa un disturbo dell'umore nel 90% dei casi. Questo forse è un buon motivo per riflettere sulle cause biologiche della depressione senza tacciare l'approccio come inevitabilmente riduzionista. Esiste quindi alla base di queste tendenze alla spiegazione razionalizzata un riduzionismo psicologico molto simile a quello che può esistere nell'approccio biologico.

Gli Errori dell'Approccio Biologico alla Psichiatria

Accade di frequente, quando si esprimono delle perplessità nei confronti della validità di alcuni costrutti diagnostici come il disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività (ADHD), o il disturbo borderline di personalità, di sentirsi rispondere che questi disturbi determinano dei cambiamenti specifici nel cervello ed è dimostrato dalle tecniche di neuro imaging. Come si può ignorare un dato così oggettivo rispetto ad una malattia evidentemente biologica?
Il problema è che spesso in psichiatria confondiamo i termini biologico e malattia: non tutte le cose che hanno a che fare con la biologia sono malattie anche se per altri versi potremmo affermare che in qualche modo tutte le malattie sono in ultima analisi biologicamente determinate. Noi sappiamo che tutte le esperienze psicologiche degli esseri umani sono mediate dal cervello e che il cervello cambierà tutte le volte che avrà delle esperienze. Leggere un articolo che parla del cervello è un'esperienza psicologica. Un delirio nella schizofrenia è inevitabilmente un'esperienza psicologica. E' però altrettanto chiaro che il cambiamento che nel cervello si determina leggendo un articolo non riflette una condizione di malattia, mentre quello del secondo caso, evidentemente si.
Quindi mostrare dei cambiamenti cerebrali con una risonanza magnetica nel caso di ADHD o di un disturbo borderline, non dimostra che queste condizioni siano malattie. Se si guarda la televisione o si gioca con un videogame si verificheranno dei cambiamenti nel cervello e si potrebbero anche avere contemporaneamente sintomi di ADHD. Se una persona vine ripetutamente abusata nel corso della propria vita, questa persona subirà dei cambiamenti nel proprio cervello, e potrebbe anche sviluppare nel tempo dei sintomi clinici di una personalità borderline. Ma questi cambiamenti nel cervello non hanno lo stesso ruolo causale dell'atrofia neuronale che si determina nella trisomia del cromosoma 21, o nella schizofrenia o piuttosto nel disturbo bipolare, che hanno un substrato d'origine determinato da una maggiore componente di tipo genetico. Nel caso delle malattie, i cambiamenti biologici sono eziologici, determinano cioè la sintomatologia clinica. Nel caso invece di disturbi come l'ADHD (non associato a disturbo bipolare) o il disturbo borderline di personalità, i cambiamenti biologici sono l'effetto, non la causa, di altri fattori eziologici che determinano la sintomatologia (come ad esempio gli abusi sessuali). Quindi la biologia non è sinonimo di malattia perché spesso riflette la patogenesi e non l'eziologia di un disturbo. Tutte le cose sono mediate dal cervello che è la via comune finale di ogni esperienza. Ma i cambiamenti che avvengono nel cervello a loro volta non sono la causa ultima dell'esperienza, sono al massimo la causa più prossima nel determinare l'esperienza stessa. Tutto questo determina spesso una posizione rigida e per certi versi paradossale in alcuni psichiatri, che risultano più biologicamente orientati del più estremo dei cardiologi. A volte noi psichiatri abbiamo bisogno di enfatizzare gli aspetti biologici, come nel caso dell'ADHD, per prescrivere con più tranquillità le anfetamine; enfatizziamo la biologia della personalità borderline cosi possiamo sentirci tranquilli quando la diagnostichiamo, evitando così in buona fede di fare diagnosi alternative come quella di disturbo bipolare evitando così di prescrivere stabilizzatori dell'umore. Accade quindi spesso che utilizziamo la biologia per giustificare la razionalità delle nostre ideologie. Allo stesso modo, una parte degli psicoanalisti, a lungo gli antagonisti per antonomasia del pensiero biologico, hanno virato verso la neuro-psicoanalisi per avvalorare le proprie teorie, snaturandone il senso e finendo per lo più nei meandri della banalizzazione in quella che è stata definita da alcuni saggi “la bolla neurale”.
In ogni caso dal momento che il cervello è la via finale comune, ogni cosa è inevitabilmente biologica, incluso questo articolo. Ma sarà meglio dimenticare la biologia a meno che non siamo disposti a distinguere l'eziologia dalla patogenesi, come farebbe qualsiasi buon medico.

La Possibile Soluzione

E' facile in un articolo negare o denunciare il riduzionismo sia biologico che psicologico ed è altrettanto facile nella pratica cadere nel riduzionismo. La giustificazione più comune è che quando si è sotto pressione, va bene ogni cosa. Per cui diventiamo tutti bio-psico-sociali e combiniamo in qualche modo tutti gli approcci, in una sorta di eclettismo che ci permette di fare quello che ci viene più facile. Sono i cosiddetti approcci integrati che tanto vanno di moda oggi ma che sembrano più determinati a risolvere in modo politicamente corretto i conflitti fra scuole di pensiero, che i problemi effettivi dei pazienti. Così ci ritroviamo a professare un'approccio biologico e a cadere in un riduzionismo psicologico e viceversa. Accade che alcuni psichiatri dominati da un eclettismo furioso facciano la prescrizione di una terapia farmacologica a margine di una seduta di (para) psicoterapia. Potremmo dire comunque che, nonostante il mio neanche tanto velato dissenso, questa forma di eclettismo facile è la teoria predominante della psichiatria attuale, sempre che si possa chiamarla “una teoria”. Si tratta in realtà di una forma di dogmatismo anarchico. C'è da chiedersi a questo proposito se ci sia una soluzione al di là dell'eclettismo o dell'anarchia e forse c'è e potrebbe essere questa: la scienza. Essa non ha niente a che fare con il riduzionismo biologico come molti potrebbero pensare, anche se da un punto di vista teorico si potrebbe postulare che la scienza è riduzionistica per natura: essa prova a prendere in considerazione qualcosa di complesso e tenta di valutarne un aspetto. Essa accetta solo teorie che sono testabili, preferibilmente confutabili e non solo confermabili.
Nel caso della psichiatria, la ricerca scientifica può insegnare che alcune malattie sono prevalentemente biologiche (come la schizofrenia, il disturbo bipolare ed alcune forme di depressione ricorrente) e siamo giustificati nell'avere un atteggiamento riduzionistico nei loro confronti. Dall'altra parte, alcuni quadri clinici sono fondamentalmente psicologici dal punto di vista eziologico (come nel caso di molti quadri clinici di tipo isterico che oggi vengono più o meno inclusi dalle varie classificazioni DSM nel disturbo post traumatico da stress (PTSD), alcune forme di panico e i disturbi cosiddetti somatoformi), altri hanno un'origine per lo più sociale (come accade in molti casi di ADHD in bambini che vivono in contesti di povertà ed abbandono e che non possono accedere a sviluppare strutture comportamentali socialmente condivisibili nella loro vita).
In questi casi non c'è molto di opinabile, per cui considerare l'origine di questi quadri clinici non dipende da un punto di vista piuttosto che un altro. La ricerca scientifica definirà ciò che è biologico, psicologico e sociale e in qualche caso potrà ipotizzare che due di questi fattori eziologici possono avere uguale rilevanza (come accade con i tratti di personalità negli studi di genetica). In questi casi saremmo giustificati nell'essere “bio-psico-sociali”.
In altre parole il nostro problema maggiore in psichiatria è che noi non ci affidiamo realmente alla scienza, lo diciamo solo a parole, e addirittura a volte abbiamo un atteggiamento di sufficienza nei suoi confronti. Questo non è sorprendente, dato che la nostra cultura prevalente ha sviluppato un eccessivo scetticismo, se non una forma di vera e propria paranoia, nei confronti della scienza. Molti fenomeni di deriva populistica dominati da un pensiero magico onnipotente ai confini del fanatismo religioso come il metodo “stamina”, la “cura Di Bella”, le teorie di scientology, la diffidenza nei confronti delle vaccinazioni ne sono una evidente testimonianza. In psichiatria fra l'altro la situazione potrebbe essere peggiorata dal fatto che chi se ne occupa (incluso me) è motivato da predilezioni personali a carattere umanistico, aumentando quindi l'impressione di un'opinabilità che già dilaga quasi incontrastata. Questo è un altro problema culturale: si tende a considerare l'approccio umanistico come antitetico a quello scientifico, anche se noi tutti sappiamo che non abbiamo alternative ad un approccio umanistico se davvero vogliamo indagare se una persona ha una determinata malattia oppure no, non si può prescindere in tale compito dal rapporto umano. I nostri pazienti meritano ed hanno bisogno di un approccio empatico ed una comprensione umana, quindi di una relazione. Sarebbe un medico pessimo sia colui che per simpatia omette di diagnosticare una malattia curabile, che quello che diagnostichi per eccesso di tecnicismo o prudenza, malattie che non ci sono e prescrive farmaci inutili che danneggeranno più che essere d'aiuto. Quindi la relazione è il mezzo che ci permette di arrivare alla diagnosi e in tale compito in psichiatria vale una regola paradossale: ognuno è il potenziale peggior medico di se stesso se non si affida alle cure dell'altro.

Ortoressia Nervosa: quando la ricerca della qualità del cibo può diventare una malattia


L'ortoressia nervosa è un presunto disturbo dell'alimentazione in cui una persona è eccessivamente preoccupata per per la qualità e la salubrità del proprio cibo. Il primo a descrivere questo disturbo è stato Steven Bratman in un articolo pubblicato nel 1997 sulla rivista Yoga Journal. Il disturbo comprende sia una specie di fissazione per il cibo “sano” che una dipendenza da esso e da un'alimentazione appropriata. In casi estremi tale preoccupazione, come avviene nei classici disturbi ossessivi, domina la vita dell'individuo che ne soffre. L'ossessione per il cibo biologicamente puro e per i negozi in cui esso si vende conduce ad uno stile di vita caratteristico. Restrizioni dietetiche e pianificazioni relative all'alimentazione, in combinazione con personalità o tratti prevalenti di personalità tendenti a sentimenti di superiorità e condotte di tipo fobico-ossessivo, sono spesso elementi centrali dell'ortoressia nervosa. La trasgressione delle regole dietetiche comporta un'ansia intensa, sentimenti di colpa e vergogna e determinano condotte conseguenti incentrate sul digiuno che può durare anche diversi giorni. Ad oggi questo non è considerato un disturbo psichiatrico perchè non incluso nel lunghissimo elenco del DSM V, ma risulta comunque un quadro clinico piuttosto comune nella pratica quotidiana di chi si occupa di salute mentale. In realtà la questione è stata a lungo dibattuta all'interno del gruppo di esperti che si è occupato dell'interminabile stesura dell'ultima edizione del DSM, ma è probabile che l'eventuale inclusione dell'ortoressia nervosa potesse in qualche modo esacerbare i conflitti che negli Stati Uniti esistono fra psichiatria e organizzazioni anti-psichiatriche che spesso includono il cibo e una dieta presunta come adeguata, come elemento centrale per la cura “naturale” delle malattie psichiatriche in alternativa a quella sintetica propinata dalle multinazionali del farmaco. In realtà il fenomeno, forse con meno fanatismi, si è esteso nel tempo a tutti i paesi occidentali e l'attenzione al cibo è diventata una vera e propria moda, una specie di nuovo status symbol, la nuova frontiera della vita eterna in cui cibi ossidanti ed antiossidanti combattono una strenua battaglia per la sopravvivenza. Questa attenzione ovviamente non costituisce un disturbo di per sé, ma, inevitabilmente, il diffondersi di alcuni concetti in maniera ideologica, finisce con il condizionare la modalità di espressione del disagio psichico e quindi si determinano sul piano fenomenologico nuovi quadri clinici, non nuove malattie. Possiamo dire che l'attenzione che viene data alla qualità del cibo fornisce un piano nuovo di espressività di modalità fobico-ossessive di interpretazione della nostra realtà. Come sappiamo dai disturbi dell'alimentazione classici come la bulimia e l'anoressia nervosa, il cibo riveste un'importanza non solo concreta come mezzo di sopravvivenza ma anche simbolica come “madre che nutre”. Quindi nel caso di bulimia ed anoressia avremo una problematica quantitativa legata ad una madre (introiettata?) che nutre troppo o troppo poco, mentre nel caso dell'ortoressia avremo un problema di qualità della relazione e non di quantità, con strutturazioni che vanno dalla mela avvelenata propinata dalla strega a Biancaneve o dal serpente tentatore alla povera Eva, a quella che se mangiata ogni giorno toglie il medico di torno. Quindi il buono e il cattivo non sembrano dipendere da fenomeni quantitativi come la presenza/assenza quanto piuttosto dalla qualità della presenza. In questa ottica ci si potrebbe aspettare una minor gravità dei quadri di un'eventuale ortoressia perchè si riferirebbero a modalità non eccessivamente regredite, ma sappiamo come il buono e il cattivo (relativamente all'oggetto) possono essere alla base di quelle difese proiettive che tendono a estromettere l'oggetto cattivo e, attribuendogli una grande pericolosità frutto della nostra aggressività, farne un oggetto persecutorio. Avremo quindi tutte quelle conseguenze così consuete nei disturbi dell'alimentazione in cui il senso di colpa per aver mangiato la mela avvelenata e il senso di vergogna per non essere stati suffcientemente forti e aderenti al nostro ideale di sè, costituiscono la ragione profonda di tutte le deprivazioni ed espiazioni. Si cerca quindi un modo per essere perdonati o perdonarsi. Ma torniamo all'ortoressia, e soprattutto alla sua recente storia e al suo “inventore” il dottor Steven Bratman, che in maniera paradossale non solo non è uno psichiatra ma è addirittura un medico che praticava e pratica tuttora la medicina alternativa e che in maniera inaspettata da un punto di vista ideologico, ma con la coerenza di chi in ogni caso si occupa di clinica, categorizza un nuovo disturbo. Pubblica un articolo sullo Yoga Journal (dubito che l'American Journal of Psychiatry o la Rivista di Freniatria lo avrebbero fatto) in cui spiega come sia arrivato nel corso della sua lunga esperienza clinica a individuare una condotta alimentare che presenta molte delle caratteristiche di un disturbo. Negli anni '70 l'allora Steve Bratman lavorava come cuoco e addetto alle coltivazioni biologiche in una comunità a nord di New York. Laureatosi in medicina ha cominciato a praticare la medicina alternativa e a prescrivere condotte dietetiche per la cura di alcuni disturbi. Nel suo articolo il dottor Bratman descrive come nel tempo la sua ortodossia e la sua “fede” nella cura attraverso la medicina nutrizionale sia diventata meno rigida. Nel tempo il suo approccio si è per così dire medicalizzato arrivando a considerare la terapia dietetica come una terapia farmacologica che può avere effetti terapeutici quanto effetti collaterali. La sua disillusione comincia proprio al tempo della sua esperienza nella comunità popolata da idealisti del cibo, in cui si è imbattuto nel caos delle contraddittorie teorie nutrizionali. Nella comunità i vegetariani che erano in numero prevalente pretendevano che i cibi fossero cucinati in pentole e locali diversi rispetto a quelli in cui venivano cucinate pietanze a base di carne. Le verdure crude amate dai vegetariani erano odiate dai seguaci della macrobiotica che mangiano solo verdure cotte. I sostenitori della verdura di stagione non tolleravano che la comunità spendesse soldi per acquistare lattuga a gennaio. I cibi piccanti erano considerati da alcuni terapeutici e da altri dannosi, lo stesso per i crauti ed i cibi fermentati, la frutta (potenzialmente alla base delle infezioni da candida), l'aceto e le combinazioni di cibo come proteine ed amidi dannose per alcuni e addirittura da cucinare assieme per altri (riso nero e fagioli aduki). Il rischio era che la medicina olistica alla base di quella nutrizionistica perdesse di vista uno dei principi fondamentali che è la cura della persona e la dieta ne è solo un mezzo, non il fine. In tali circostanze il dottor Bratman cominciò a notare che alcuni dei seguaci più accaniti presentavano dei pattern cognitivi e comportamentali peculiari, che sembrare configurare un vero e proprio disturbo. L'ortoressia comincia di solito in maniera innocente sulla base del desiderio di prevenire malattie croniche o migliorare la propria salute in generale. Ma il regime dietetico che si abbraccia ideologicamente, qualsiasi esso sia, comporta una notevole forza di volontà anche perché spesso differisce dall'alimentazione dell'infanzia (il latte nel caso dei vegani) o da quella socialmente condivisa. Per mantenere un'autodisciplina ferrea si finisce spesso con lo sviluppare un forte senso di superiorità se non di disprezzo nei confronti di coloro che si cibano di cibo “immondizia” (che è tutto ciò che il proprio regime dietetico proibisce). Col passare del tempo ciò che uno mangia, quanto e le conseguenze di eventuali trasgressioni, costituiscono il pensiero prevalente della giornata all'insegna dell'ortoressia e l'atto di mangiare cibo “puro” può acquisire connotazioni pseudo-spirituali. Le trasgressioni che vanno dal divorare un singolo acino d'uva al mangiare una pizza maxi, comportano sentimenti di vergogna e perdita dell'autostima e comportano punizioni fatte di giorni di digiuno. Quindi resistere alla tentazione diventa uno dei cardini dell'autostima di chi è affetto da ortoressia. La cosa interessante del racconto del collega americano è che, “come spesso accade è basato su una sensibilità proveniente dall'esperienza personale”. Ai tempi della comunità, quando gestiva la produzione di coltivazioni biologiche, era diventato talmente “snob” da considerare scarto qualsiasi verdura fosse stata raccolta da più di 15 minuti, era totalmente vegetariano, masticava ogni boccone per 50 volte e consumava il cibo in un posto tranquillo, cioè da solo, e faceva in modo di sentire il suo stomaco vuoto alla fine di ogni pasto. Dopo un anno di questo regime alimentare si sentiva fortissimo, con le idee chiare e disprezzava i consumatori di barrette di cioccolata e patatine fritte come “meri animali ridotti a soddisfare le proprie papille gustative”. Però non si sentiva libero perchè aveva la sensazione di dover dimostrare in continuazione ai sui “confratelli” la propria capacità di non trasgredire, e continuava a far lezioni a familiari e amici sui danni da cibi raffinati e coltivati tra pesticidi e fertilizzanti artificiali. Penso che a questo punto più di qualcuno riconosca qualche persona di sua conoscenza o la sensazione che si prova nel trovarsi a tavola con commensali di questo genere. Il collega americano è stato “salvato” dall'ossessione e dalla solitudine, dal verificarsi di due eventi fortuiti. Il primo è stato quello dell'improvviso ravvedimento del proprio guru dell'alimentazione vegana che un giorno disse di avere avuto una rivelazione in sogno: “piuttosto che mangiare i miei germogli da solo, preferisco condividere una pizza con gli amici”. L'altro evento determinante fu l'incontro con un monaco benedettino che gli spiego che lasciare il cibo nel piatto per rimanere con lo stomaco vuoto era un'offesa a Dio. Il processo per tornare ad un'alimentazione non condizionata durò comunque un paio d'anni e non fu assolutamente facile proprio a causa di quei sentimenti di colpa e di vergogna che seguivano tutti i momenti di “trasgressione” delle regole alimentari precedenti.
Col passare degli anni il collega americano è diventato sempre più consapevole di quanto una dieta corretta sia importante per ciascuno di noi e di quanto essa possa in qualche modo essere “pericolosa”. Alla fine del suo lavoro cita il caso di una sua paziente sofferente di asma in trattamento con una dose medio alta di cortisone e di come con una dieta che tenesse conto delle intolleranze, fosse riuscita a sospendere completamente la terapia farmacologica. Ma nel tempo il regime dietetico della sua paziente prese talmente il sopravvento sulla propria vita, che passava la maggior parte del suo tempo a casa a pianificare cosa avrebbe mangiato, in una battaglia strenua contro il craving per cibi peraltro assolutamente salubri come pomodori e pane. Era assolutamente soddisfatta di essere riuscita a sospendere il cortisone tanto che inviò molti parenti ed amici in cura dal dottor Bratman, che però cominciò a chiedersi se veramente avesse aiutato la sua paziente e se il bilancio tra vantaggi ed effetti collaterali della dieta bilanciasse la cura di un disturbo serio ma non grave come l'asma (se fosse stato un tumore o una forma di sclerosi multipla il dubbio avrebbe avuto meno motivodi esserci). Bratman era consapevole del fatto che la paziente prima assumeva 4 o 5 compresse di cortisone al giorno ma aveva una vita, mentre adesso “aveva solo un menu”. Ci sono comunque molti casi in cui la dieta porta grandi benefici clinici ai pazienti ma bisogna affrontare questi pazienti con grande equilibrio e senza facili entusiasmi. La terapia alimentare non è né il trattamento ideale come dicono i suoi sostenitori, e neanche una inutile perdita di tempo come affermano i detrattori della medicina convenzionale. “La dieta se da un lato è un mezzo terapeutico troppo complicato e emotivamente carico per essere prescritto con leggerezza, dall'altro potrebbe essere troppo utile ed efficace per essere ignorato”. Con queste parole il dottor Bratman chiude la sua comunicazione lasciando grandi spazi di discussione e riflessione. Da un punto di vista clinico, la mia riflessione sull'ortoressia è che non mi è mai capitato che qualcuno chiedesse il mio aiuto per un'eccessiva attenzione al proprio regime dietetico, dal momento che in genere, per quanto abbiamo visto in precedenza, questa condotta e sostanzialmente sintonica. Del resto è raro anche che una persona anoressica chieda spontaneamente aiuto, e in genere chi è affetto da bulimia tende a nascondere il disturbo. E' comunque piuttosto frequente riscontrare un'attenzione assolutamente eccessiva nei confronti del cibo, in molti pazienti con una personalità o un disturbo ossessivo o in pazienti “guariti” da un pregresso disturbo dell'alimentazione. Non so se l'ortoressia diventerà in futuro un'altra o l'ennesima categoria diagnostica, ma sono certo che dal punto di vista della psicopatologia, essa costituisca un quadro clinico di cui tenere conto, utile per la comprensione e la cura dei nostri pazienti.   

Italia al Mondiale in Brasile: Para-psicologia di una Catastrofe annunciata


Mi rendo conto che sia facile fare della dietrologia e che non sia simpatico cadere in quel terribile modo di dire che alcune persone utilizzano quando le cose vanno male: “lo sapevo io” oppure “te lo avevo detto” … Ma ci sono dei casi in cui ci si chiede come sia possibile stupirsi dell'esito di una vicenda quando tutti i presupposti fanno pensare ad un fallimento. Non so se lo staff della nazionale italiana utilizzi un referente per il buon senso ma ho l'impressione proprio di no. Si è parlato molto di tecniche, di macchine, di test psico-fisici, del figlio di Prandelli che già dai tempi degli europei era entrato a far parte con indubbio merito dello staff come preparatore atletico e che rappresenta un indubbio valore aggiunto per l'ambiente della nazionale. Certo qualcuno potrebbe ricordare che la Francia aveva un allenatore che faceva le convocazioni in base all'oroscopo, ma anche vero che quella Francia fece una magrissima figura al mondiale a cui partecipò. Comunque ho l'impressione che la nazionale abbia anche uno staff di psicologi, ma ho anche l'impressione che questi psicologi siano un po' come quelli che lavorano nella scuola. In genere gli insegnanti che mi capita di avere in cura, nel momento in cui propongo loro l'eventualità di una psicoterapia, mi rispondono che hanno seri dubbi che uno psicologo come quello hanno a scuola possa essere in qualche modo utile. Quindi se il peso dello staff psicologico della nazionale è simile dubito che, a parte costituire un costo, possa essere di qualche utilità. Ho l'impressione che, come spesso accade in ambito sportivo, il preparatore e l'allenatore diventino gli psicologi ufficiali investiti come sono del ruolo da tutte quelle tecniche che si basano sul coaching. Quindi nel momento in cui abbiamo un vero coach a che ci serve uno psicologo, magari fisicamente senza qualità, che faccia finta di fare il coach, tanto vale avvalersi di un coach che faccia finta di fare lo psicologo.
Ma se facessimo il gioco terribile dei se e dei ma, e ipotizzassimo che la nazionale avesse assunto una persona di buon senso (qualcuno potrebbe sospettare che mi stia candidando) forse ci si sarebbe accorti di alcuni piccoli dettagli che in qualche modo possono aver condizionato l'esito dell'impresa, facendola diventare un'impresa funebre. Se una persona di buon senso avesse preso in considerazione una serie di fatti noti precedenti le convocazioni per il Brasile, forse avrebbe potuto gestire la situazione in modo tale da evitare l'esito catastrofico che si è verificato con l'eliminazione da parte dell'Uruguay. Penso che qualcuno fosse a conoscenza delle future dimissioni di Abete che ha detto pubblicamente che aveva espresso l'idea di andarsene prima del Mondiale (la famosa onestà intellettuale) e del malumore, quasi paranoide nei confronti di ignoti di Prandelli che ha elaborato la separazione e le dimissioni in pochissimi minuti dopo la disfatta, come se avesse semplicemente detto una cosa che aveva in mente da tempo. L'unico che stava sereno era Albertini che come 40enne è inevitabilmente il futuro di qualsiasi cosa (lo dice una dei Berlusconi), ma noi sappiamo che i quarantenni che stanno sereni o a cui dicono “stai sereno”, non fanno una bella fine, almeno in Italia. Immobile, novello sposo è pronto per il viaggio di nozze, ma l'ambiente che troverà nella squadra non sarà quello che ci si aspetta in questi casi: con lo spettro della Bernardini (De Pace?) si parte per Rio con le mogli pronte a farsi risarcire eventuali scappatelle con 55000 Euro al mese. La signora Buffon giura di non aver ancora parlato con l'avvocato divorzista più famelico d'Italia, ma è li, per amor dei figli. In aereo lo psicologo di turno decide di mettere alcuni in Business Class (Balotelli, Buffon, Chiellini, Barzagli, Cassano, Bonucci, Pirlo, De Rossi, Aquilani, Candreva, Sirigu, Paletta, Marchisio, Abate, Thiago Motta, Prandelli, Albertini) ed altri in Economy (Mirante, Perin, Darmian, De Sciglio, Parolo, Verratti, Cerci, Immobile, Insigne, il resto dello staff, il personale della Federcalcio e alcune famiglie dei giocatori, figli compresi, la compagna di Prandelli, le mogli di Cassano, Marchisio, Aquilani). Direi che la separazione non determina di solito un grande spirito di squadra, ma le separazioni familiari hanno addirittura qualcosa di sadico. Trovo l'idea di mettere le mogli e i figli in economy con il marito in business una trovata senza dubbio educata ed educativa.
A questo punto non ci resta che atterrare a Rio, assistere alla telenovela propinataci da Balotelli e Fanny con annesse liti e riappacificazioni: lo sceneggiatore ha scritto una favola a lieto fine in cui il ranocchio si sveglierà principe e campione del mondo, ma, come sappiamo, non andrà così.
Andiamo in campo e Pirlo fra un lancio e l'altro fa i conti di quanto dovrà incassare per pagare gli alimenti, Buffon con gli occhi addosso della moglie e della fidanzata si guarderà più le spalle che altro, Immobile resterà shockato dalle vicende coniugali dei compagni, Balotelli studia le pose per le foto da mettere sui facebook, Paletta medita se potrà ricevere un risarcimento come quello della signora Pirlo dal suo parrucchiere di fiducia, Prandelli ha un modulo per ogni situazione, ma le situazioni sembrano non adattarsi ai moduli per cui mette tutti in sauna e spera che il lesso sia pronto per tempo, nel frattempo Albertini prepara la salsa verde. Qualcuno comincia a giocare a si salvi chi può ma, si sa, quando è in gioco l'onore della patria bisogna essere eroi e gli eroi diventano tali solo quando cadono. E, inevitabilmente cadiamo. A volte non si sceglie di essere ma ci si ritrova ad essere proprio malgrado, seguendo il copione di una Caporetto annunciata. Onore ai caduti. Tre salve di cannone. Il funerale è previsto l'11 di agosto prossimo. Non fiori ma opere di bene.
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