Premetto che le
generalizzazioni su cui mi baserò per tentare di fare un quadro
della struttura di personalità di un femminicida, non consentono
l'individuazione di singoli casi, che in virtù delle peculiarità di
ciascun essere umano, sfuggono inevitabilmente a qualsiasi tentativo
di inquadramento in un cluster definito. L'applicazione di principi
generali ai singoli casi ha un costo di falsi positivi e falsi
negativi che vanificherebbe di fatto lo sforzo in sé.
Questa riflessione ha il
senso di fornire delle considerazioni di massima che possano dare una
spiegazione sul come e sulla base di quali presupposti un uomo possa
arrivare ad uccidere una donna con cui abbia, o abbia avuto in
passato, una relazione o meno.
In 25 anni di lavoro come
psichiatra, ho incontrato molte donne spaventate da uomini più o
meno oggettivamente o solo potenzialmente violenti, mentre non
ricordo di aver mai avuto a che fare con un femminicida o un uomo con
intenzioni seriamente tali, non avendo comunque un'esperienza di
psichiatria carceraria. Potrei supporre che sia molto raro (non per
presunzione, ma sulla base delle diverse migliaia di pazienti con cui
ho avuto una relazione in questi 25 anni) che potenziali femminicidi
consultino uno psichiatra o uno psicoterapeuta per ottenere un
qualche genere di aiuto. Da ciò possiamo presupporre che queste
persone in generale abbiamo poca propensione a percepire l'angoscia
anche se ci capita di vederli piuttosto contriti nelle immagini
televisive dell'arresto, forse anche per un sentimento di vergogna
per essere stati scoperti e catturati. Alcuni sapranno come la
differenza fra il senso di colpa ed il senso di vergogna stia
genericamente negli aspetti relazionali, dal momento che la vergogna
si riferisce alla perdita dell'ideale di sé, mentre la colpa
comprende la perdita dell'altro. Ovviamente vergogna e colpa non si
presentano in una logica antitetica ma piuttosto in un continuum in
cui le polarizzazioni sono solo teoriche.
Un'altra considerazione è
che spesso il femminicida, a parte episodi di violenza nei confronti
della vittima (quando c'è relazione), proprio in virtù della grande
attenzione che dà agli aspetti idealizzati di sé, risulta avere una
immagine pubblica tutt'altro che sospetta tanto che nelle
testimonianze di vicini di casa e conoscenti (amici in senso stretto
di solito non ne hanno) risultano persone gentili e nel complesso
particolarmente tranquille. Siamo quindi di fronte a personalità
dissociate in cui il falso sé funzionante, potrebbe non reggere ai
sentimenti di angoscia nel momento in cui le vittime di questi uomini
tentano di sottrarsi al loro dominio, minando così pericolosamente
la loro cosiddetta autostima. Anche l'autostima di cui tanto
facilmente quanto a sproposito si parla nei saloni di bellezza (si
chiama marketing) non costituisce concetto di facile comprensibilità.
Potremmo definirla come la capacità nel tempo di mantenere
un'immagine interna coerente ed integrata di sé. La perdita
dell'autostima porta in genere ad una sensazione di angoscia di
frammentazione, una sorta di derealizzazione (perdita di contatto con
la propria realtà) che, se insostenibile, diventa il presupposto per
l'eliminazione della parte cattiva dell'oggetto frustrante e mancante
fonte di tanta sofferenza, nel tentativo di preservarne il buono. In
tali persone l'altro è concepito solo come funzionale al
mantenimento della propria integrità e la sensazione di
disintegrazione viene proiettata all'esterno sotto forma di
annientamento dell'oggetto cattivo. Quando parliamo di proiezione in
una parte della psichiatria si allude implicitamente alla paranoia e
noi sappiamo come la gelosia non sia altro che una forma di paranoia.
Il concetto chiave, che
non ho ancora nominato, che ci permette di avere una visione
d'insieme della struttura di personalità di un potenziale
femminicida e che ci dà una possibile spiegazione dei diversi casi
di femminicidio è quello di narcisismo. Sappiamo quanto il
narcisismo sia importante per strutturare il nostro carattere, quanto
sia utile nelle logiche di autoaffermazione e fondamentale nel
mantenimento della nostra famigerata autostima (e quindi
nell'economia dei saloni di bellezza). Dal punto di vista evolutivo
il narcisismo è il punto di partenza che ci permette di prendere
coscienza di noi stessi nella fusione con l'altro che non viene
percepito come separato. Purtroppo nel tempo qualsiasi bambino (molto
piccolo) sperimenta che l'oggetto d'amore (di solito la madre) è
anche frustrante e che a volte non c'è, gettandolo nella
disperazione più totale e ad una protesta non sempre ascoltata. Nel
tempo, se le cose non si complicano, e se la frustrazione come diceva
un mio collega qualche decennio fa è ottimale, riusciamo a tollerare
un certo grado di separazione e questa separazione ci permette di
sperimentare progressivamente l'altro come possibile oggetto con cui
avere una relazione. Nel tempo acquistiamo sempre più la capacità
di separarci in virtù della possibilità di mantenere un'immagine
interna dell'oggetto anche in sua assenza. In tale contesto il
termine oggetto (altro) è utilizzato come alternativa al soggetto
(io).
Può accadere in alcuni
casi che questo processo di individuazione e di formazione delle
logiche relazionali si arresti precocemente, determinando una
incapacità di tollerare la frustrazione se non al prezzo di
cancellare l'oggetto esterno e di tornare ad uno stato indefinito in
cui l'altro esiste solo in funzione delle proprie necessità e
diventa quindi nient'altro che una estensione di sé. A questo punto
gli altri non hanno più vita propria ma sono solo oggetti su cui
proiettare parti non integrate di sé. Se la partner si sottrae a
questa proiezione la conseguenza inevitabile è la perdita della
propria coesione interna con uno stato conseguente di angoscia
cosiddetta di frammentazione. Per uscire da questo stato più o meno
celermente una possibilità è la cancellazione (a livello di
pensiero) o l'annientamento (a livello fisico) dell'altro. Queste
considerazioni possono darci un'idea di cosa possa accadere ad un
uomo che uccide dopo anni di violenze una partner che tenti di
sottrarsi alla relazione. La cosa che mi colpisce è come le donne
riescano a cogliere questo pericolo in maniera lucida tanto che
percepiscono spesso chiaramente come la separazione possa costituire
il momento di rottura di un equilibrio violento e di come si sentano
in tali frangenti realmente a rischio. Certo è vero che l'omicidio
accade in una minoranza dei casi e che spesso, anche per motivi
fortuiti (l'uomo trova un'altra “vittima”) le cose si risolvano
senza fatti tragici. Resta l'impressione che quando una donna avverte
questa sensazione di pericolo imminente ci sia sempre un fondamento
che va oltre le logiche razionali. Questo spiega anche il perchè
molti femminicidi non vengano evitati nonostante le continue
richieste d'aiuto delle vittime: molte volte accade che queste donne
portino solo la paura, condizionate anche dalle manipolazioni del
partner, e non le prove inoppugnabili di un reale pericolo. Purtroppo
quando queste prove esistono può essere troppo tardi.
Esistono comunque altri
casi di femminicidio in cui non ci sono rapporti tra la vittima e
l'assassino e spesso in tali casi si riscontra una certa tendenza
alla serialità. Anche in questo caso e forse in maniera eclatante,
il narcisismo costituisce la chiave di lettura che ci permette di
capire come possano funzionare (si fa per dire) le cose. Il
narcisismo in questo caso assume una forma particolare (maligna
diceva un mio collega) e si associa a valenze sadiche e psicopatiche
in una miscela terribile di cui violenza, sofferenza, spietatezza
sono le componenti fondamentali. Abbiamo a che fare con individui per
cui l'altro non è oggetto altro da sé ma semplicemente una cosa che
acquista vita solo nella sofferenza in una logica proiettiva. A
proposito, nella proiezione, proprio come accade al cinema, dove uno
schermo acquista una vita che altrimenti non avrebbe, succede che
pensieri propri, sia negativi (su basi fobiche), che positivi (in
base alla speranza), vengano attribuiti ad altri senza averne
consapevolezza. Questo meccanismo è fonte frequentemente di notevoli
fraintendimenti.
Ci si potrebbe chiedere a
questo punto come mai il femminicida sia così frequentemente
maschio, dati i rari casi di maschicidio. Mi rendo conto che
la domanda potrebbe suonare come bizzarra ma non mi sembra del tutto
scontata e purtroppo neppure semplice. Cercherò comunque di rendere
le cose comprensibili al prezzo di una certa banalizzazione
focalizzando l'attenzione sulle tematiche sado-masochistiche. Abbiamo
visto come gli aspetti sadici diventino centrali nei casi di
femminicidio in cui il femminicida non ha rapporti con la vittima e
in un altro scritto di qualche settimana fa tentavo di spiegare come
il masochismo nelle donne determina a volte una tendenza a sopportare
la sofferenza nella speranza che questa tolleranza sia riconosciuta e
premiata. E' ovvio che tratti sadici possano essere presenti anche in
molte donne e che simmetricamente tratti masochistici possano
caratterizzare la struttura di personalità di molti uomini. E' anche
vero che spesso tratti sadici e masochistici coesistano e per certi
versi possano determinare nella quotidianità comportamenti
altruistici o cosiddetti egoistici. Il paradosso è che la
polarizzazione e quindi la presenza di un tratto in assenza
dell'altro costituisca il più delle volte un condizionamento potente
della personalità. In considerazione di questo, possiamo pensare che
la maggior diffusione di tratti masochistici tra le donne (soggetti
ad una forma quasi biologica di pressione selettiva) rende molto
improbabile in esse l'eventualità di una strutturazione esclusiva in
senso sadico. Al contrario nei maschi un eccesso di sadismo può non
essere “bilanciato” e determinare quindi, in strutture fortemente
paranoidi o psicopatiche, assetti di personalità che vedono nel più
debole un'occasione di affermare se stessi. Questo ovviamente è
letteralmente solo un punto di vista, che non comprende le teorie
biologiche con ormoni (testosterone e ossitocina) e
neurotrasmettitori (serotonina e dopamina) o le teorie sociologiche
che molto possono contribuire alla spiegazione di un fenomeno così
terribilmente diffuso in questo nostro difficile tempo.
Mi rendo conto di essermi
piuttosto dilungato e penso che questi spunti, sufficienti per una
riflessione ed una eventuale discussione, possano aver dato
l'impressione di un eccesso di indulgenza nel tentativo di
comprendere. Ma ai più accorti non sarà sfuggito che per i casi di
femminicida più maligni, la speranza di una riabilitazione ad oggi
sia da considerarsi solo un'ipotesi scarsamente attendibile e l'unica
possibilità che abbiamo a disposizione è quella di un isolamento a
tempo indeterminato.
Nessun commento:
Posta un commento